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Data: 31/07/2019 11:00:00 - Autore: Roberto Cataldi di Roberto Cataldi - Le parole hanno un peso, molto più grande di quanto si possa immaginare. Quando i pensieri si traducono in verbo, possono pesare come macigni. Una parola può ferire, umiliare oppure arrivare, in un momento difficile, come una carezza inaspettata. Noi tutti abbiamo in mano questo straordinario potere e lo usiamo quotidianamente anche se, spesso, in modo inconsapevole. Attraverso le parole comunichiamo amore, solidarietà, emozioni…. Ma le parole possono anche essere utilizzate per prevaricare, distruggere, ferire. Sarà vero dunque che "le parole volano"? Non esattamente. Persino Freud, il padre della psicoanalisi, ha dovuto constatare che attraverso le parole "un uomo può rendere felice un altro o spingerlo alla disperazione". Questo perché le parole, anche se non restano impresse su carta, possono restare incise per sempre nel profondo della nostra anima. E in ambito politico? L'uso delle parole, in questo contesto, può diventare addirittura pericoloso e avere effetti persino devastanti. Al punto che possono portare a cambiamenti radicali della società, influenzare il pensiero collettivo, incidere sulle dinamiche stesse del consenso. Stiamo parlando dell'uso manipolatorio delle parole, che fa leva su una comunicazione ambigua, ingannevole e che porta a un vero e proprio travisamento della realtà. Attraverso la manipolazione, il politico veicola pensieri e immagini che eccitano le masse, trasformando qualsiasi banalità in un allarme sociale. Un "vizio antico", se vogliamo, che, nel corso del novecento, ha conosciuto la sua più drammatica realizzazione nei regimi totalitari. L'uso della propaganda, l'ossessione manichea della censura, la negazione e la distorsione della realtà dei fatti come strumenti di consolidamento del proprio potere, hanno attraversato il vecchio continente, mettendo sullo stesso piano l'Italia fascista, la Germania hitleriana e l'Urss di Stalin. L'abilità retorica dei dittatori, condita di violenza verbale e di una gestualità sapientemente studiata, riusciva ad affabulare, ad ipnotizzare le masse, a solleticarne le paure e le angosce più profonde attraverso lo spettro di un nemico contro cui indirizzare ogni sorta di frustrazione e di rabbia sociale. Lo stesso ministro della propaganda nazista, Joseph Goebbels, aveva ammesso che sarebbe bastato "ripetere una bugia cento, mille, un milione di volte" ed essa sarebbe diventata una realtà. Tutti coloro che hanno esercitato il potere in modo dispotico e violento, indipendentemente dall'ideologia a cui dichiaravano di volersi ispirare, hanno fatto proprio questo "insegnamento" e dunque il mondo che hanno raccontato è sempre stato una "luccicante" menzogna, presentata non con le parole della verità, come dovrebbe sempre fare un vero leader, bensì con quelle della mistificazione subdola e ingannevole. Una modalità, molto simile a quella manipolatoria, è quella legata alla "forma" della comunicazione verbale. Si ricorre spesso (ed accade purtroppo anche oggi persino in ambito parlamentare) alla teatralità come modalità di espressione comunicativa per supplire alla carenza di contenuti. Si modula il tono della voce, si inseriscono pause d'effetto, e si fa in modo che le parole in alcuni passaggi siano urlate con enfasi per conferire loro credibilità ed efficacia. Alla fine si ha quasi l'impressione di ascoltare persone che parlano tutte nello stesso modo, che replicano un cliché di maniera svilendo i contenuti e rendendoli mero sfondo di un teatrino dell'insipienza. Pur senza alcun intento di generalizzare, dobbiamo constatare che spesso il politico "teatrale" mostra di non essere in grado di far leva sulla validità delle argomentazioni e la forma della comunicazione diventa un modo per supplire a una carenza di fondo: l'incapacità di affrontare un dialogo basato sulla forza del ragionamento logico e sulla validità delle argomentazioni. Così il tratto distintivo del dibattito politico contemporaneo fa si che le aule parlamentari siano umiliate e ridotte a palcoscenico di un teatro dell'assurdo, dove si parla senza ascoltare, si discute senza capire le ragioni altrui, insomma, come direbbe Pirandello, "si recita a soggetto". Non si tratta di rimpiangere la cosiddetta Prima Repubblica, sia ben chiaro, nessuno vorrebbe mai riesumare un sistema politico travolto dagli scandali e superato dalla storia. Si tratta piuttosto di recuperare l'onestà del pensiero e porsi alla ricerca di principi che uniscono piuttosto che di parole che dividono. Un'utopia? Certo che no. Ciò che è avvenuto una volta può succedere ancora. E un primo esempio di condivisione di principi fa parte della nostra storia: quando fu scritta e votata la nostra Costituzione. Oggi le parole non uniscono più, non servono a smussare le spigolature, a colmare le distanze, sono piuttosto urlate e brandite come una clava per abbattere le idee degli avversari. Ci si schiera facilmente a difesa delle proprie posizioni che non si è più disposti a mettere in discussione, restando schiavi della paura di perdere le proprie certezze, i propri punti fermi. Così, nella quotidianità del dibattito politico, diventa quasi un reato di "lesa maestà" avanzare dubbi sulle proposte della propria parte o cogliere, in quelle degli altri, spunti di ragionevolezza e di validità: un corto circuito mentale che svilisce il ruolo del Parlamento e dei parlamentari. C'è però un modo diverso di utilizzare le parole. Un modo che sa legare il pensiero al sentimento e alla ragione. In tal caso non ci si limita a pronunciare parole che "devono" essere pronunciare, ma parole che si "sente" di dover pronunciare. Si tratta di una modalità che da prevalenza all'onestà intellettuale, al proprio personale convincimento, al fatto che si crede in un'idea che nasce in primo luogo dalla propria coscienza e non da un fabbisogno elettorale. Ma un pensiero libero fa sempre paura giacché la forza della ragione e la capacità di coinvolgere emotivamente è la prima vera minaccia per chi è miseramente immerso in un vuoto contenutistico, costretto a trovare un modo per sopravvivere e mantenere il suo ruolo. Quando le parole sono "libere" e "vere" assumono la capacità prorompente di diventare virali e di fare breccia su chi ascolta senza bisogno di essere urlate e senza bisogno di ricorrere ad artifici retorici. Esse contrappongono all'arroganza delle polemiche, il garbo e l'intelligenza di chi sa far leva sulle buone ragioni. Ed ecco che le parole diventano più pesanti di una valanga e, pur se pronunciate sottovoce, come ha scritto Patrick Rothfuss, sono in grado di accendere fuochi nelle menti e far uscire lacrime dai cuori più duri. |
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