Data: 21/08/2019 21:00:00 - Autore: Redazione
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Quando parliamo di Giustizia, stiamo facendo riferimento a uno dei concetti primordiali nella vita degli esseri umani. L'uomo ha sempre avuto una sorta di innato "sentimento della giustizia" che preesiste a qualsiasi norma scritta.

Di fronte alla molteplicità dell'agire umano, il nostro mondo interno riesce a percepire spontaneamente quando un'azione è "giusta", dove per giusto si intende equo, ponderato, posto in essere nel rispetto dell'altro.

Questo volume è il tentativo di addentrarsi in un viaggio nel complesso del "sistema giustizia" per raccontarne le origini e i cambiamenti che l'hanno portato a diventare un apparato burocratizzato fin troppo distante dalla vita reale.

Durante questo percorso, a tratti kafkiano, si scorge ad un certo punto una via d'uscita, un possibile ritorno all'essenza del diritto, una possibile riscoperta del sentimento della giustizia.

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Leggi la prefazione alla prima edizione (di Aldo Carotenuto)

Quando si parla di giustizia, si apre inevitabilmente una breccia anche all'interno della psicologia umana, giacché è mia convinzione che il diritto nasca necessariamente come sentimento, ancor prima che come sistema giuridico complesso e razionale. In qualunque relazione ci si ponga con il mondo esterno, non si può non riscontrare un desiderio primario di comprensione, di difesa e di realizzazione, nel nostro agire.

L'uomo nasce solo, nell'illusione onnipotente che ciò che lo circonda sia un'appendice della sua volontà e dei suoi bisogni; e, almeno in questo stadio, non esiste legge o morale che tenga, ma solo la necessità di sopravvivere. In un'altalena di soddisfazioni e frustrazioni, il bambino – la cui ingenuità può essere intesa anche come "malvagità" primaria – si avvede che deve fare i conti con una realtà indipendente. Ecco che nasce la coscienza, come conoscenza del limite, di ciò che non è consentito fare. Improvvisamente, ma solo per un breve periodo, il mondo esterno ed interno assumono i tratti della distruttività, della casualità e della minaccia… ma l'unilateralità può diventare mortale se non si ristabilisce un equilibrio, un'antitesi.

Nascono, così, in risposta a un non-senso, gli archetipi del bene e del male. Il "bene" è la nostra volontà di vivere, a cui si oppone il "male" come negazione, imposta dall'esterno, del nostro desiderio. Siamo ancora in una prospettiva "monoculare", dove tutto viene rapportato al soddisfacimento o meno dei bisogni individuali, e la vita stessa è una lotta continua.

Successivamente, per sanare questa tensione e questo conflitto permanente con la realtà, saremo indotti ad ammettere che è necessario adattarsi ed adattare. Esterno e interno cominciano a dialogare, definendo gli accordi che assicureranno una "pacifica" convivenza: nasce, dunque, il "diritto" a vivere e lasciar vivere.

Detto così può sembrare tutto molto semplice e lineare, ma allora perché le cose non funzionano? Perché la legge non viene rispettata? Perché il diritto, pur dovendoci tutelare, si rivolta contro di noi?

Hobbes diceva "homo homini lupus" e, con questo, chiudeva ogni discussione sulla natura umana. Ma davvero è così semplice?

Probabilmente no, perché – come in tutti i "patteggiamenti" – c'è sempre qualcuno che, strada facendo, cambia le carte in tavola; e magari non necessariamente perché è disonesto, ma perché sono cambiati la sua condizione, le sue esigenze, i suoi bisogni. Nulla nel mondo della natura può dirsi "dato" e immutabile. Il nostro modo di guardare l'universo, cambia in continuazione, soprattutto perché cambiano gli affetti e le disposizioni interiori, le domande e le risposte: quello che era giusto all'epoca degli antichi romani, può non esserlo più oggi, e viceversa.

Purtroppo, la crescente complessità delle nostre strutture sociali, cognitive, culturali e giuridiche ha portato a un progressivo allontanamento della risposta dalla domanda. Capita allora che il sistema cambi più lentamente, o in maniera inadeguata, rispetto alla coscienza individuale; così come l'individuale cambia sempre più repentinamente del collettivo. Come giustamente ci fa notare l'autore, il sistema è diventato impersonale – e io aggiungerei razionale – al punto da non rispettare più il singolo in quanto uomo, dotato di emozioni. Non dimentichiamo infatti che prima del "giusto modo di pensare" viene sempre il "giusto modo di sentire". Quando questo divario, tra personale e impersonale, tra senso comune e legge, diventa troppo grande si apre inevitabilmente una voragine, in cui impera la "giustizia delle grida".

La trasgressione, allora, può diventare il modo più immediato per far valere le proprie ragioni, a fronte di un sistema che non vuol sentire ragioni. Ma dietro di essa c'è sempre una domanda irrisolta, che sarà difficile far tacere con la semplice repressione. Si dice che la voce della coscienza è debole, ma persistente e, quando rimane troppo a lungo inascoltata, può diventare un grido. Non si può chiedere a un uomo di rinunciare, sempre e in ogni caso, a favore di un bene sommo e irraggiungibile; perché a fronte di quella rinuncia, i cui effetti collettivi si perdono nel nulla, c'è la morte spirituale di un uomo. Se Galileo Galilei o Giordano Bruno avessero rinunciato a vivere, a pensare con la propria testa, a seguire i propri sentimenti, il danno collettivo sarebbe stato ben maggiore della momentanea destabilizzazione della legge!

"Eppur si muove". Dentro, qualcosa continua a muoversi e a tormentarci, anche se vorrebbero farci credere il contrario. Uno dei grandi limiti della giustizia è proprio quello di non rispettare più la voce della coscienza, esattamente come la coscienza trasgressiva non rispetta più la legge: le trattative si sono interrotte; siamo tornati alla logica della lotta per la sopravvivenza del più forte.

L'assurda pretesa di voler perseguire il "vero" e il "giusto", come se fossero forme eterne e apriori, anziché umane tensioni soggette al cambiamento, può portare solo al dogma e al totalitarismo… insomma, all'ingiustizia e al rancore. L'autore ci fa notare, con un accurato excursus storico, come la retorica, arma dell'uomo di legge, si sia trasformata – nei secoli – da disciplina della rettitudine in abilità manipolativa, da strumento atto a rivelare il vero – almeno così la intendeva Socrate – a strumento per nascondere la verità. La parola, dunque, si è asservita alla fredda razionalità del calcolatore, invece che al pathos dell'anima. Con ciò è diventata lettera morta, ancor prima di essere

pronunciata: l'estraneità dell'uomo alla legge si fa sempre più pronunciata, perché quello che si sente dire in un'aula di Tribunale assomiglia molto di più ad un calcolo ben fatto, che a un afflato di giustizia.

Probabilmente la propensione che talune persone hanno per la pena di morte è proprio l'estremizzazione di questo bisogno di tornare ad una giustizia a misura d'uomo, che parli la lingua dell'uomo, anche se in questo caso è la lingua della sua brutalità.

Il proposito con cui Cataldi conclude il suo libro, ossia quello di recuperare la coscienza come fonte di diritto, mi sembra assolutamente centrato. Non si può porre fine ad uno stato di malessere in altro modo che ascoltando e interpretando le sue ragioni o, ancor prima, le sue emozioni.

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Vedi anche:

Libri: Nicole. Un romanzo psicologico con sottotrama giudiziaria
Autore: Roberto Cataldi. Edito da Armando Editore. In distribuzione a partire dal 29 agosto. In vendita o prenotabile anche su Amazon e IBS



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