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Data: 03/09/2019 10:30:00 - Autore: Nadia Mungari di Nadia Mungari - Non è sempre facile capire quando ci si trova dinanzi ad una ipotesi di "esercizio abusivo di una professione", soprattutto quando la professione di cui stiamo parlando è quella forense. Del resto, il panorama giuridico attuale prevede la partecipazione attiva alla vita forense anche di figure ibride, che non "posseggono il titolo" di avvocato, ovvero non hanno superato l'esame di abilitazione bandito ogni anno dal Ministero della Giustizia, ma che, tuttavia, si trovano nella condizione di potere esercitare la professione, seppure entro i limiti stabiliti dalla legge.
La figura del praticante abilitato[Torna su] E' bene tenere presente che si tratta sempre di "opzioni" che il nostro ordinamento offre temporaneamente, nella prospettiva poi di un successivo "salto" nel mondo degli avvocati "veri". Appartiene certamente a questa categoria la figura del praticante abilitato all'esercizio della professione forense, largamente diffusa presso le Corti d'Appello di tutta Italia, in quanto trampolino di lancio per i giovani praticanti che vogliano "praticare direttamente" la professione di avvocato fino al superamento dell'esame di abilitazione e "salvagente" per chi, magari non più così giovane, non riesca nell'impresa. Negli ultimi anni ci sono state alcuni importanti riforme che hanno sconvolto la regolamentazione di questa figura, esponendola, nel caso in cui l'interessato non sia particolarmente attento alla cogenza della normativa di settore, al rischio di commissione del reato di esercizio abusivo della professione, di cui all'art 348 c.p. Un recente provvedimento del Tribunale di Cremona ha fornito alcuni interessanti spunti a proposito di quel "pericoloso" confine tra attività del praticante abilitato lecita e reato di esercizio abusivo della professione, ai sensi dell'art. 348 c.p., chiarendo anche la reale portata delle riforme degli ultimi anni in materia. La disciplina dei praticanti abilitati prima e dopo la riforma della L. 247/2012[Torna su] Fino al 19.01.2013[1], i praticanti abilitati erano dei "piccoli avvocati". Essi potevano dichiarare "studio proprio" e svolgere attività processuale entro determinati limiti di competenza giurisdizionale per territorio, valore e materia, sia in sede civile che penale. Al di là della materia trattata, i praticanti abilitati potevano esercitare solo entro i confini del distretto della Corte d'Appello nel cui territorio rientrava il Consiglio dell'Ordine a cui questi erano iscritti. In ambito civile il praticante abilitato poteva esercitare attività processuale in cause dal valore non superiore ad € 25.822,84, nonché in procedimenti inerenti contratti di locazione o comodato. Il maggiore quantitativo di lavoro per il praticante abilitato civilista, che decideva di mettersi in proprio prima del superamento dell'esame di abilitazione, era quindi l'attività di recupero crediti di modico valore e le procedure di sfratto. In ambito penale, era invece possibile per il praticante abilitato esercitare attività processuale in processi penali che vertevano su fattispecie qualificate come reati per i quali era prevista la sola pena pecuniaria o comunque una pena detentiva non superiore a quattro anni. Tutto sommato il piccolo spazio lasciato ai praticanti abilitati comportava un'utilità tanto per questi ultimi, che potevano cominciare a "farsi le ossa", quanto per il pubblico, che poteva optare per un consulente legale meno costoso ma, comunque, almeno teoricamente, in grado di svolgere il servizio richiesto. Tuttavia, già prima della riforma che ha poi mutato la disciplina nel modo che vedremo, si sono registrati episodi di abuso della professione e di "straripamento" oltre i limiti consentiti da parte di qualche aspirante avvocato. Molte volte erano gli stessi dominus che chiedevano al proprio praticante abilitato di "provare" ad occuparsi di un'udienza ove non era permesso a quest'ultimo presentarsi se non per "raccogliere" le udienze sul libretto della pratica in compagnia dello stesso dominus. In altre occasioni, invece, purtroppo capitava che il praticante abilitato, laureato da molto tempo e con una propria struttura ed un proprio pacchetto clienti, si fingesse un vero e proprio avvocato e, come tale, venisse considerato nella sua comunità. Forse anche in ragione di queste problematiche, il legislatore ha deciso di cambiare. La L. 247/2012, all'art. 41, ha infatti stabilito che, al di là di qualunque competenza per territorio, valore e materia, il praticante abilitato possa esercitare l'attività forense solo in sostituzione dell'avvocato presso il quale svolge la pratica e comunque sotto il controllo e la responsabilità dello stesso, anche se si tratta di affari non trattati direttamente dal medesimo. Il praticante abilitato penalista, inoltre, non può operare fuori dai casi in cui si tratti di procedimenti di competenza del Giudice di pace, contravvenzioni o comunque per reati per i quali sia stabilita una pena massima di quattro anni o la sola pena pecuniaria. Il provvedimento del tribunale di Cremona[Torna su] Il Tribunale di Cremona, nel provvedimento in commento, chiarisce, una volta per tutte, che, in caso di attività del praticante abilitato oltre i limiti stabiliti dalla legge non ci si trova dinanzi ad una mera irregolarità che, tuttalpiù, può "invalidare" l'attività processuale, ma ad condotta che costituisce reato: quello di esercizio abusivo di una professione, ai sensi dell'art. 348 c.p. Quindi giovani e meno giovani che vi trovate in difficoltà a superare l'esame di abilitazione all'esercizio della professione forense, attenzione! La vicenda ha avuto luogo in Cremona qualche anno fa. Un praticante abilitato si era presentato ad una signora originaria della città, ma che da anni viveva altrove, come avvocato pur non essendolo, visto che non riusciva a superare l'esame di abilitazione da diverso tempo. La donna si era rivolta a lui in quanto aveva bisogno di ottenere la liberazione di un immobile di sua proprietà, precedentemente concesso in locazione a terzi. L'incarico, rientrante nell'area di competenza del praticante abilitato prima della riforma della L. 247/2012, veniva svolto con successo. Il praticante abilitato, quindi, inoltrava alla cliente la nota pro forma delle proprie competenze. Quest'ultima, però, veniva ritenuta troppo elevata, tanto che ne nasceva un contrasto, di cui veniva tentata la risoluzione presso l'organo di conciliazione del Consiglio dell'ordine di appartenenza del professionista. In quella sede la signora apprendeva che quest'ultimo non era iscritto all'albo degli avvocati, bensì a quello dei praticanti abilitati. Questo fatto generava molta rabbia nella donna, che si sentiva "presa in giro", sostenendo che il professionista si fosse più volte presentato come avvocato con proprio studio. La donna decideva quindi di denunciare il praticante abilitato per esercizio abusivo della professione, ai sensi dell'art. 348 c.p., nonché per truffa, di cui all'art. 640 c.p. La denuncia-querela originava un procedimento penale ove, all'esito delle indagini preliminari, il Pubblico Ministero richiedeva l'archiviazione, in quanto riteneva che non vi fossero sufficienti prove circa il fatto che l'indagato si fosse effettivamente presentato come avvocato. La signora, che si riteneva offesa dalla condotta tenuta dal praticante abilitato, presentava opposizione alla richiesta di archiviazione, indicando elementi probatori con cui potesse emergere la condotta fraudolenta del praticante abilitato che si era finto avvocato. Il Giudice per le indagini preliminari di Cremona, ritenuta inammissibile l'opposizione presentata dalla signora, in quanto, rispetto al reato di esercizio abusivo della professione, non poteva essere considerata persona offesa e non era riscontrabile la sussistenza del reato di truffa, ordinava l'imputazione coatta del praticante abilitato. Ciò che portava il Giudice cremonese ad optare per questa soluzione non erano gli atteggiamenti e le dichiarazioni del professionista non ancora avvocato ma, piuttosto, il fatto che, molto ingenuamente a parere di chi scrive, questo soggetto non avesse rispettato quanto disposto dalla legge professionale. L'incarico, che tanti guai poi gli aveva procurato, infatti, gli era stato conferito successivamente all'entrata in vigore della Legge 247/2012. In ragione di ciò, il praticante abilitato avrebbe dovuto agire unitamente, e anzi, in sostituzione del proprio dominus e non da solo, come invece aveva fatto. Al di là del fatto se avesse davvero tenuto atteggiamenti volti ad ingannare la sua cliente e a farle credere che fosse iscritto all'albo degli avvocati, il suo principale errore era stato quello di svolgere l'attività processuale conformemente alla regolamentazione precedente alla riforma del 2012 ma assolutamente in contrasto con quest'ultima. Il provvedimento in commento, quindi, chiarisce che i nuovi limiti per i praticanti abilitati sono cogenti e, se violati, implicano la commissione di un reato, che può essere provato in maniera molto più facile che in passato. Conclusioni[Torna su] La normativa attuale implica che la vecchia figura del praticante abilitato, seppure astrattamente contemplata, in concreto non possa più esistere, dal momento che a questo non è più permesso di svolgere attività forense in via autonoma. L'istituto conserva dunque una mera natura formativa per quei praticanti che vogliano "fare pratica" nel vero senso della parola, con una concreta attività giudiziale, nonché natura di ausilio "low cost" per quei dominus che non riescano a presenziare a tutte le udienze relative agli incarichi a loro conferiti. Chi ci ha perso da queste novità normative, dunque, sono i clienti che, probabilmente per colpa di qualche "furbetto" di troppo, non hanno più la possibilità di fruire di quel numero di giovani professionisti a basso costo per pratiche di modico valore.
[1] Data in cui è entrata in vigore la nuova Legge professionale 247/2012. |
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