Data: 22/10/2019 22:00:00 - Autore: Lucia Izzo
di Lucia Izzo - L'assenza di consenso rappresenta un esplicito requisito della fattispecie di violenza sessuale e dunque un errore sul dissenso deve ritenersi "inescusabile".

In particolare, per la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, è sufficiente che l'agente abbia la consapevolezza del fatto che un consenso non sia stato chiaramente manifestato dal partner. In particolare, poiché non vi sono indici chiari e univoci atti a dimostrare l'esistenza di un inequivoco consenso, il dissenso deve ritenersi sempre presunto.

Il caso

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Tanto si desume dalla sentenza n. 42118/2019 (sotto allegata) con cui la Corte di Cassazione, terza sezione penale, ha respinto il ricorso di un uomo imputato di lesioni, maltrattamenti e violenza sessuale nei confronti della sua ex, convivente all'epoca dei fatti.

In particolare, per quanto riguarda il reato di cui all'art. 609-bis c.p., l'uomo sottolinea come che il dissenso al rapporto era stato manifestato dalla controparte solamente al termine e dopo l'atto sessuale. Inoltre, dati i rapporti tra le parti, egli non sarebbe stato nella condizione di percepire l'eventuale dissenso della donna con la quale peraltro, nonostante il turbolento rapporto, vi erano ancora saltuarie relazioni sessuali.

Violenza sessuale: dissenso sempre presunto

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Gli Ermellini rammentano come l'elemento soggettivo del reato di violenza sessuale è costituito dal dolo generico e, pertanto, dalla coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà sessuale della persona non consenziente, restando irrilevante l'eventuale fine ulteriore propostosi dal soggetto agente.

La mancanza del consenso, inoltre, costituisce requisito esplicito della fattispecie e l'errore sul dissenso si sostanzia, pertanto, in un errore inescusabile sulla legge penale.

Ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo, inoltre, è sufficiente che l'agente abbia la consapevolezza del fatto che non sia stato chiaramente manifestato il consenso da parte del soggetto passivo al compimento degli atti sessuali a suo carico.

Non è, infatti, è ravvisabile alcun indice normativo che possa imporre, a carico della vittima del reato, un onere, neppure implicito, di espressione del dissenso all'intromissione di soggetti terzi all'interno della sua sfera di intimità sessuale.

Al contrario, si deve piuttosto ritenere che tale dissenso sia da presumersi, laddove non sussistano indici chiari e univoci volti a dimostrare l'esistenza di un, sia pur tacito ma in ogni caso inequivoco, consenso (così, in motivazione, Sez. 3 n. 49597 cit).

Coppie sposate o conviventi: non esiste un "diritto all'amplesso"

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Nel caso in esame, i provvedimenti di merito hanno dato atto delle non equivoche dichiarazioni rese dalla donna, del suo pianto durante il rapporto, dell'attitudine sprezzante del ricorrente alla conclusione del medesimo.

Gli espressi dinieghi all'atto sessuale che la donna aveva ormai ripetutamente ribadito all'ex partner e l'atteggiamento mantenuto in occasione della violenza non fanno altro che confermare quanto doveva essere chiaro all'imputato, che alcuna giustificazione poteva così al riguardo accampare. E neppure questi poteva evocare la circostanza attenuante della minore gravità di cui all'art. 609-bis, terzo comma, del codice penale.

Correttamente, il provvedimento impugnato ha negato l'attenuante stante l'oggettiva invasività della condotta dell'uomo, il quale aveva costretto la compagna a un rapporto sessuale completo; anzi, vi è una maggiore gravità della condotta proprio in considerazione del contesto di convivenza e di consuetudine al rapporto intimo.

A nulla rileva, infatti, l'esistenza di un rapporto di coppia coniugale o para-coniugale tra le parti, atteso che non esiste all'interno di un tale rapporto un "diritto all'amplesso", né conseguentemente il potere di esigere o imporre una prestazione sessuale.

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