Data: 11/11/2019 16:00:00 - Autore: Roberto Paternicò
di Roberto Paternicò - Le previsioni di crescita dell'economia italiana nel 2019-2020 (stime UE), si attesterebbero più o meno su un PIL dello 0,1% con un lieve aumento allo 0,4% nel 2020. Ai primi posti Malta e l'Irlanda, con una crescita intorno al 5%.
Nel contempo, la Grecia che era il Paese debitore a più alto rischio, ha ridotto il proprio spread sino a raggiungere e, qualche giorno fa, sorpassare l'Italia, nonostante esclusa dal programma di Quantitative Easing (QE) della BCE e con una previsione del PIL di circa il 2%.
Come osservato dal Financial Times, sebbene il debito italiano offra migliore garanzie rispetto a quello greco, il Paese resta impantanato in una sostanziale assenza di crescita. L'Italia, quindi, l'ultima ruota del carro.

Cosa accade nei Paesi UE in crescita?

In alcuni Paesi europei, ad esempio, l'Irlanda e il Lussemburgo è divenuta rilevante la dicotomia tra l'economia reale dello Stato e quella indotta dalla cd."globalizzazione" e cioè quella derivante dall'apporto delle multinazionali insediatesi in quei Paesi.
Misurare l'impatto di questo apporto sulla reale economia di uno Stato può risultare difficile e causare timori, proprio per la dipendenza di un Paese da economie esogene e non riuscendo facilmente a valutare, invece, il reale valore del proprio "prodotto interno". Di fatto, sono le multinazionali che fanno girare il mondo e con una maggiore incidenza sui piccoli Stati che per vari motivi hanno difficoltà a " brillare di luce propria".
L'Irlanda con Google, Facebook, Apple e Microsoft e il Lussemburgo con Amazon, banche internazionali, fondi di investimento, etc. hanno applicato "ruling" riservati (accordi tra multinazionali e governo per fiscalità dedicate), corporate tax incentivanti e sistemi di "transfer pricing" (trasferimenti e vendite tra imprese sussidiarie e holding per evitare dazi e abbattere le tasse), realizzando così una sorta di paradiso fiscale in Europa, aperto agli investimenti esteri. La Grecia, dunque, in ripresa non è da meno ed è pronta a offrire generosi incentivi fiscali per riportare nel Paese gli investitori stranieri (una flat tax sui redditi per chi si trasferisce o investe e una tassazione ridotta sia per le imprese che per i dividendi).
A tutto ciò, da aggiungere la qualità del sistema Paese che deve attrarre gli investitori in termini di efficienza di procedure pubbliche, logistica, servizi, tempi della giustizia, ecc.
Questi alcuni degli scenari dell'odierna economia, seppur il Fondo monetario internazionale (FMI) ha avvisato i governi di non crogiolarsi solo e troppo su dette metodologie in vista della possibile riforma del fisco internazionale su cui sta lavorando l'OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) per un approccio uniforme al problema.

Cosa propone l'OCSE

Nell'era digitale, l'attribuzione dei diritti fiscali non può più essere circoscritta esclusivamente in riferimento alla presenza fisica. Le attuali norme risalenti agli anni '20 non sono più sufficienti per garantire un'equa ripartizione dei diritti fiscali in un mondo sempre più globalizzato.
Da ciò deriva la necessità di rivedere le regole sull'allocazione degli utili poiché le tradizionali regole di allocazione del reddito assegnerebbero oggi zero profitti a qualsiasi collegamento non basato sulla presenza fisica. Sono necessarie, pertanto, modifiche delle regole di allocazione degli utili non solo per le situazioni in cui non c'è presenza fisica, ma anche per quelle in cui esiste. I contribuenti, altrimenti, potrebbero semplicemente eludere le nuove regole utilizzando forme alternative di presenza nel paese (sia una filiale locale o un'entità correlata). Un certo numero di settori in cui sarebbero necessari ulteriori lavori sono già considerati dal programma di lavoro, includendo la tipologia di business o la segmentazione territoriale, sia se associati al trattamento delle perdite che alla determinazione dell'ubicazione delle vendite. Le nuove regole potrebbero vedere la luce nel 2020 non senza incontrare resistenze.

Il gioco non si ferma

In attesa di un "new deal", il Fondo monetario internazionale ribadisce che "Quando un Paese dà vita a una nuova scappatoia fiscale o ad un accordo segreto tra le parti che sono in grado di attrarre risorse mobili, altri Paesi copiano o li superano, in una corsa al ribasso."
Le cifre sono importanti. Si tratta di introiti fiscali persi nel mondo da tassazione sulle imprese multinazionali per circa 500/600 miliardi di dollari all'anno di cui circa 200 miliardi persi dalle economie a basso reddito ove cresce di più il rischio che i capitali vengano trasferiti verso i paradisi fiscali (dai 24 ai 36 trilioni di dollari, stime 2016 dell'economista americano James S. Henry).

I fattori di crisi in Italia

Le difficoltà della nostra economia derivano, come già negli anni 90', dalla lentezza nella trasformazione, dal mancato adattamento alla globalizzazione e da uno "status quo" che non si evolve. Come recentemente ricordato dal Governatore della Banca d'Italia, i fattori di crisi in Italia, possono individuarsi in:
- la mancata conversione dei settori produttivi tradizionali che hanno subito le forti pressioni competitive globali;
- la struttura dell'industria composta in prevalenza da piccole e medie imprese che in rari casi hanno sviluppato reti d'impresa, cluster o fusioni per trovare risorse per competere, investendo in ricerca e sviluppo;
- gli assetti proprietari e gestionali, prevalentemente familiari che in larga parte non hanno attinto ad un più ampio bacino di professionalità esterne e non hanno ampliato il proprio azionariato a terzi per favorire l'accesso al mercato dei capitali;
- l'eccessiva concentrazione degli imprenditori verso il sistema bancario.
Si è parlato e si parla spesso di favorire il necessario e veloce cambiamento con riforme strutturali (settore produttivo, mercato del lavoro, pubblica amministrazione, servizi pubblici, etc.), ma i dati indicano che, rispetto agli altri paesi, gli italiani frequentano la scuola di meno, vi apprendono di meno e curano poco la formazione anche dopo la scuola. Con un tasso di disoccupazione elevato e una partecipazione al lavoro bassa, si raggiunge un livello molto superiore alla media europea dei cosiddetti "NEET" (Not in education, employment, or training) cioè giovani non impegnati nello studio, nel lavoro o nella formazione.

In sintesi:

- Nel 2018 solo il 62% della popolazione italiana nella fascia di età 25-64 anni aveva concluso un ciclo di scuola secondaria superiore, contro l'83% della media dei paesi avanzati (membri dell'OCSE);
- per gli studenti delle scuole superiori (dati da Programme for International Student Assessment del 2015 e recenti INVALSI) indicano che una quota significativa di alunni non possiede un livello adeguato di conoscenze in italiano e, in misura maggiore, in matematica. La percentuale di studenti che non padroneggia in maniera adeguata una lingua straniera, nello specifico l'inglese, aumenta nel corso dell'itinerario scolastico, fino ad assumere dimensioni preoccupanti all'ultimo anno di scuola;
- per gli adulti, (dati da Programme for the International Assessment of Adult Competencies 2013) evidenziava per l'Italia una diffusa carenza di quelle competenze – di lettura e comprensione, logiche e analitiche – che rispondono alle moderne esigenze di vita e di lavoro. Il 70% degli adulti italiani, ad esempio, non era in grado di comprendere adeguatamente testi lunghi e articolati (ultimi tra i paesi OCSE, con una media inferiore al 50%) e una quota analoga non riusciva a utilizzare ed elaborare adeguatamente informazioni matematiche;
- le competenze finanziarie sono basse nel confronto internazionale, soprattutto per ciò che attiene alla conoscenza dei concetti finanziari di base e ai comportamenti nella gestione del risparmio (dati Banca d'Italia nel 2017 con metodologia OCSE, il punteggio medio complessivo degli italiani è di 3,5 su un massimo di 7, contro una media di 4,3 per i paesi del G20);
- l'investimento in formazione negli anni successivi a quelli dell'istruzione formale, (dati rilevazione europea Continuing Vocational Training Survey indica che nel 2015 solo il 60% delle imprese italiane con almeno 10 addetti aveva svolto attività di formazione professionale per i propri dipendenti contro media europea del 73%);
- i divari di competenze investono in modo preoccupante anche la sfera delle conoscenze digitali. Oggi, solo il 44% degli italiani possiede abilità digitali, 13 punti percentuali in meno rispetto alla media della UE (quart'ultimi).
Dunque studiare di più e studiare meglio sia a scuola che durante la vita lavorativa.
"Oggi, le conoscenze dovrebbero più proficuamente essere suddivise tra quelle tradizionali e quelle "nuove". Quelle tradizionali includono sia le discipline umanistiche sia quelle scientifiche. Ma accanto a queste occorre coltivare, in tutte le professioni, altre competenze, che servano anche a far fronte a situazioni inedite, con l'esercizio del pensiero critico, la propensione alla risoluzione dei problemi, la capacità di comunicare in modo efficace, l'apertura alla collaborazione e al lavoro di gruppo, la creatività e l'attitudine positiva nei confronti dell'innovazione, competenze che corrispondono decisamente ai valori messi in luce da Phelps. Sono i cosiddetti soft skills: competenze che non sono davvero nuove, ma è una novità il ruolo decisivo che esse vanno assumendo nella moderna organizzazione del lavoro e, più in generale, quali determinanti della crescita economica …
Come ci ricorda infatti il filosofo Søren Kierkegaard "la vita va vissuta in avanti" anche se "può essere capita solo all'indietro".

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