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Data: 25/11/2019 23:00:00 - Autore: Annamaria Villafrate di Annamaria Villafrate - La sentenza della Corte d'Appello di Milano del 28 ottobre 2019 (sotto allegata) conferma la decisione di primo grado, respingendo le domande avanzate da alcune associazioni che hanno chiesto la revoca di una delibera della Regione Lombardia del 2015 che ha disposto l'adozione, da parte delle strutture competenti, di cartelli contenenti il divieto di ingresso con il volto coperto da casco, passamontagna o burqa, per ragioni di sicurezza. Per la Corte d'Appello le ragioni di sicurezza alla base della delibera, sono sufficienti a ritenere che la delibera non ponga in essere alcuna condotta discriminatoria perché finalizzata al riconoscimento dei soggetti.
Le associazioni contro la delibera regionale che vieta volto coperto[Torna su]
L'ASGI (Associazione degli Studi Giuridici sull'Immigrazione), l'APN (Avvocati Per Niente ONLUS), e il NAGA (Associazione Volontaria di Assistenza Socio sanitaria e per i Diritti di Cittadini stranieri), ricorrono al Tribunale di Milano affinché accerti e dichiari il carattere discriminatorio della deliberazione della Giunta n. X/4553 del 10.12.2015 della Regione Lombardia, responsabile anche di aver ordinato alle competenti strutture regionali ex art. 8 RR n. 6/2002, l'adozione di atti dirigenziali attuativi, indicando forma e contenuti del cartello da apporre nelle stesse. Le associazioni chiedono la revoca detta delibera, la rimozione del cartello e l'adozione di un piano anche per impedirne la reiterazione. Il cartello oggetto di detto ricorso riporta la scritta, tradotta anche in francese, inglese e arabo "per ragioni di sicurezza è vietato l'ingresso con volto coperto". A questa si aggiungevano tre immagini di persone con casco, passamontagna e burqa, ciascuno all'interno di un cerchio rosso sbarrato. La delibera che aveva disposto l'obbligo di affissione di detto cartello in diversi luoghi pubblici, comprese le strutture sanitarie, dopo aver richiamato i gravi fatti di Parigi, sottolineava la necessità di rafforzare le "misure di accesso e permanenza nelle sedi della giunta regionale e degli enti società facenti parte del sistema regionale". Per le associazioni ricorrenti, la delibera doveva essere revocata in quanto:
Possibile restringere libertà religiosa in nome della sicurezza pubblica[Torna su]
La Regione Lombardia difende la propria decisione espressa nella delibera oggetto di ricorso chiarendo come la stessa si sia limitata ad applicare limiti e restrizioni, dettati da motivi di sicurezza alle strutture destinatarie del provvedimento. Contrariamente a quanto sostenuto dalle ricorrenti inoltre l'art 9 della CEDU contempla la possibilità di restringere la libertà religiosa se si deve garantire la sicurezza pubblica. Nessuna discriminazione quindi è stata posta in atto visto che l'identificazione è prevista per tutti i soggetti che devono accedere alle strutture pubbliche indicate nella delibera del 2015. Trib. Milano: vietato accesso a chi impedisce identificazione[Torna su]
Il Tribunale di Milano rigetta il ricorso delle associazioni ritenendo che la delibera della Regione Lombardia chiarisca come "L'esigenza di garantire la pubblica sicurezza - come ragione che giustifica, per il tempo necessario e nei luoghi specificamente individuati, il divieto di presentarsi con indosso mezzi che rendono difficoltoso il riconoscimento, e dunque anche con il velo che copre interamente il volto, lasciando scoperti solo gli occhi, è prevista dal legislatore nazionale (art. 5 l. 152/1975)." La delibera insomma non ha fatto altro che dare attuazione alla normativa nazionale. Nello specifico il provvedimento si è infatti limitato a individuare specifici luoghi pubblici e a prevedere un divieto di accesso per coloro che impediscono la propria identificazione per il tempo necessario a permanere all'interno di detti spazi. Tali elementi consentono di ritenere che "il sacrificio dei diritti di cui agli artt. 8 e 9 della Cedu - sia ragionevole e proporzionato rispetto al valore invocato dal legislatore, ovvero la pubblica sicurezza, che risulta concretamente minacciata dalla impossibilità di identificare le numerose persone che fanno ingresso nei luoghi pubblici individuati." I cartelli descritti, riportanti il divieto di ingresso per ragioni di sicurezza con il volto coperto (casco, passamontagna o burqa) sono quindi riconducibili alla delibera regionale contestata, ma non realizzano alcuna discriminazione, né diretta, né indiretta in quanto le esigenze di pubblica sicurezza indicate fanno ritenere necessario e proporzionato il contenuto del cartello. No esclusivo riferimento al velo[Torna su]
Le parti soccombenti in primo grado appellano la sentenza reiterando in sostanza le richieste avanzate in primo grado e rilevando nei principali motivi del ricorso come:
La Regione costituitasi in appello ha avuto modo di precisare come in realtà oggetto della delibera non fosse il divieto del velo integrale ma l'aggiornamento della disciplina dell'accesso alle sedi regionali, alla luce dei gravi fatti di cronaca richiamati. L'espresso riferimento al velo deve leggersi nel contesto del provvedimento che attua l'art. 5 L. 152/75. Non solo, i concetti di identificazione all'ingresso e permanenza identificata non possono essere separati. Il cartello inoltre non fa esclusivo riferimento al velo, bensì a qualsiasi mezzo capace di rendere difficile il riconoscimento. Come riconosciuto anche dal Tribunale, il velo non deve essere interpretato come simbolo di appartenenza confessionale, ma solo come mezzo che ostacola il riconoscimento della persona. Proporzionato e ragionevole divieto velo integrale[Torna su]
La Corte d'Appello evidenzia come in secondo grado l'attenzione del giudizio si sia spostato sul contenuto del cartello e sulle proposte di eventuali modifiche, tanto che le parti hanno aggiustato il tiro, modificando in parte le proprie difese. Il giudice di secondo grado, dopo aver risolto alcune questioni pregiudiziali, evidenzia la necessità di concentrarsi sul carattere discriminatorio della delibera della Giunta regionale del 10.12.2015 e se la sua attuazione, tramite l'affissione dei cartelli come descritti, viola a sua volta le norme antidiscriminatorie. A tale proposito la Corte d'Appello giunge alla conclusione che "Non può certamente essere attribuito alla delibera in questione un carattere discriminatorio, anzitutto per la sua genericità e per avere correttamente messo in relazione la impossibilità di identificare una persona, in quanto con volto coperto, in determinati luoghi pubblici con problemi di ordine pubblico e sicurezza (che i gravissimi attentati in luoghi pubblici avevano reso ancor più evidenti, destando vivo allarme sociale), senza che vi sia stata alcuna violazione di riserva di legge, avendo la delibera richiamato espressamente la legge 152/75 (c.d. legge Reale) … La Corte condivide pertanto l'impostazione del Tribunale che ha valutato come proporzionato e ragionevole lo "svantaggio" imposto dal cartello alle donne che indossano il velo integrale per motivi religiosi, in quanto limitato nel tempo e circoscritto nel luogo SSR e giustificato da ragioni di pubblica sicurezza." |
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