Data: 23/02/2020 15:00:00 - Autore: Cleto Iafrate
di Cleto Iafrate - Con l'espressione diritti dell'uomo ci si riferisce ad un concetto dinamico, in quanto il suo significato nel corso della storia si è arricchito costantemente di nuovi contenuti.
Gli studiosi che si sono occupati della materia hanno individuato ben quattro generazioni di diritti.

La prima generazione di diritti

La prima generazione inizia nel 1789, cioè alla fine della Rivoluzione francese, e coincide con l'approvazione della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Essa ricomprende i diritti conquistati a seguito delle rivendicazioni di una serie di libertà fondamentali fino allora precluse ad ampi strati della popolazione. Si tratta, in particolare, di diritti concepiti essenzialmente per garantire agli individui una tutela nei confronti dello Stato; per esempio, i diritti legati alla libertà di pensiero, di religione, di espressione, di associazione, il diritto alla partecipazione politica, il diritto ad un giusto processo, eccetera.
I diritti di prima generazione sono stati definiti anche "diritti negativi", perché, con la loro rivendicazione, si volevano ostacolare (negare) e contenere i comportamenti autoritari dello Stato, limitandone gli interventi al minimo indispensabile.

La vera conquista della rivoluzione francese, in effetti, fu l'affermazione del principio di legalità, da cui derivano tutti gli altri diritti sopra descritti. Il principio di legalità, può essere definito l'argine del potere, in quanto stabilisce la subordinazione di qualsiasi potere alla legge, che ne fissa limiti e contenuto. Esso presuppone che a fondamento di ogni potere, attribuito ad un'autorità governativa o amministrativa, debba esserci sempre una norma di legge.

Il principio deriva dal presupposto che "la legge è uguale per tutti" e, allo stesso tempo, è posto a presidio di tale assioma. A causa della sua portata generale, è riferibile a tutto l'ordinamento giuridico, ma assume particolare rilievo nel diritto penale e, soprattutto, in quello amministrativo.
Nel diritto amministrativo il principio di legalità impone che "nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione" e che "le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati" (art. 1 legge 689/81). Il motivo è fin troppo evidente: avendo l'attività amministrativa un'origine spiccatamente politica -essendo cioè espressione della maggioranza di governo- deve necessariamente trovare nella legge i suoi presupposti ed i suoi limiti.

Nel diritto penale, invece, il principio di legalità è fondamentale in quanto impedisce che vi siano arbitrarie limitazioni della libertà degli individui e, più in generale, dei loro diritti soggettivi. Esso, infatti, impone che "nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite" (art. 1 c.p.) e nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato (art. 2, I comma, c.p. ed art. 25 Cost.). Tale previsione, detta riserva di legge, rappresenta la massima attuazione del principio di legalità. Si parla di riserva di legge, quando una norma costituzionale richiede che una determinata materia sia disciplinata in via esclusiva dalla legge formale e/o da atti ad essa equiparati.
In definitiva, si può dire che il principio di legalità è lo strumento attraverso il quale si realizzano i fini previsti dalle norme costituzionali che impongono la riserva di legge. Ad esempio, l'art. 13 della Costituzione, stabilendo che la libertà personale è inviolabile, impone che "non è ammessa alcuna forma di detenzione … se non nei casi e nei modi previsti dalla legge". La circostanza secondo la quale i reati e le relative pene sono previste dal codice penale –adottato con legge– rappresenta il compimento del principio di legalità che dà attuazione alla riserva di legge.
Il principio di legalità, conquistato con la rivoluzione francese, ha trasformato i sudditi in cittadini.
Purtroppo, però, la conquista non è per sempre, in quanto il principio è continuamente sotto attacco da parte del potere politico che non tollera intromissioni e limitazioni.
Agli inizi del secolo scorso, per esempio, Giuseppe Maggiore, illustre esponente della letteratura giuridica, propose di introdurre anche "la volontà del duce" nel nostro principio di legalità, ad imitazione di quello hitleriano[1].
In questo caso, pur nel rispetto formale della tecnica giuridica, si è tentato di introdurre dei principi che, oltre ad essere paradossali ed assurdi, si pongono sostanzialmente al di fuori ed in contrasto con l'ordinamento giuridico generale.

La seconda generazione di diritti

La seconda generazione di diritti, le cui origini si fanno risalire alla Dichiarazione universale dei Diritti Umani del 1948, ricomprende i diritti di natura economica, sociale e culturale, come, per esempio, il diritto all'istruzione, al lavoro, alla casa, alla sicurezza sociale, alla tutela della salute, eccetera.
I diritti di seconda generazione, definiti anche "diritti positivi", si ispirano a una filosofia che mette in risalto, contrariamente alla precedente generazione di diritti, il dovere d'intervento dello Stato.
I diritti di seconda generazione permettono di chiedere allo Stato non più un'astensione, ma un'azione positiva. In questo senso si parla di diritti di matrice socialista, contrapponendoli a quelli di matrice liberale della prima generazione.

La terza generazione di diritti

La terza generazione di diritti, invece, ricomprende i diritti di tipo collettivo, i cui destinatari non sono i singoli individui, ma i popoli. Ecco quindi che si parla di diritto all'autodeterminazione dei popoli, alla pace, allo sviluppo, all'equilibrio ecologico, al controllo delle risorse nazionali, alla difesa dell'ambiente.
Sono anche definiti diritti di tipo solidaristico; vuol dire che ogni popolo ha delle responsabilità nei confronti degli altri popoli, in particolare, nei confronti di quelli che si trovano in situazioni di difficoltà.
Rientrano in questa generazione di diritti tutte le azioni a tutela delle categorie di individui ritenute particolarmente deboli ed esposte al pericolo di violazione dei loro diritti. Si tratta, in particolare, dei diritti dell'infanzia, dei diritti della donna e, perché no, anche dei diritti dei militari.

La quarta generazione di diritti

Alla quarta generazione, infine, appartengono diritti caratterizzati dal fatto di essere sempre più specifici (ossia definiti nei più piccoli particolari) e di natura sempre più collettiva (cioè, non più indirizzati al singolo ma all'intera comunità mondiale nel suo complesso).
Molti dei diritti di quarta generazione sono legati alle nuove tecnologie (ad esempio, il diritto al consumo di cibi non geneticamente modificati, il diritto dei bambini che utilizzano internet); altri, invece, sono diritti già esistenti che si vogliono sempre più specificare nei minimi dettagli. Ad esempio il diritto all'etichettatura dei cibi, anche rispetto al Paese di provenienza ed alla tecnica di coltivazione, il diritto ad avere a tavola prodotti, che, oltre ad essere genuini, risultino anche esteticamente appetibili.

L'affermazione di un diritto di quarta generazione

I diritti di quarta generazione sono andati affermandosi già dalla fine del secolo scorso. Per esempio, il Regolamento (CE) N. 1677/88[2], noto come regolamento dei cetrioli, ne rappresenta la massima espressione. Al fine di creare standard europei comuni, il regolamento stabilisce le norme per la commercializzazione in area euro dei cetrioli e impone il rispetto di criteri estetici e di qualità. Si distinguono, tanto per dire, la categoria extra-class dalla meno prestigiosa class II. Inoltre, i cetrioli per essere commercializzati non devono avere "difetti e deformazioni dovute allo sviluppo"; sono tollerati lievi incurvature, a condizione che "l'altezza minima dell'arco non superi i 10 mm per 10 cm di lunghezza".
Il legislatore europeo, dunque, ha ritenuto che, a tutela degli interessi dei cittadini, anche l'aspetto esteriore e le dimensioni dei cetrioli siano meritevoli delle massime tutele da parte dell'ordinamento e vadano presidiate da norme di legge ad hoc.

La negazione di un diritto di prima generazione

Non tutti i cittadini europei, però, godono delle medesime tutele e garanzie da parte dell'ordinamento giuridico. Se tutti hanno diritto ad acquistare cetrioli di forma e dimensioni prestabilite per legge, alcuni non hanno nemmeno il diritto di conoscere quali siano le infrazioni penalmente rilevanti che danno luogo a sanzioni restrittive della loro libertà personale.
La sanzione militare di Corpo della consegna semplice, infatti, consiste nel privare il militare della libera uscita fino ad un periodo massimo di sette giorni consecutivi (art. 1352, comma 1, D. Lgs 66/2010). La legge, nel prevedere la punizione, però, non ha tipizzato gli specifici comportamenti a causa dei quali la sanzione può essere inflitta. Il legislatore, cioè, ha previsto la sanzioni, ma ha omesso di tipizzare le violazioni che la stessa censura.
Ci si chiede: La consegna semplice è una sanzione a carattere penale oppure di tipo amministrativo? Si ritiene che il precetto abbia rilevanza penale nei confronti dei "volontari in ferma prefissata (con meno di dodici mesi di servizio) degli allievi delle scuole, delle accademie e degli altri istituti di istruzione militare e del rimanente personale in ferma che, pur non avendo l'obbligo dell'accasermamento, fruisce degli alloggiamenti di reparto o di unità navale". Infatti, per tale personale la consegna, ai sensi dell'art. 741 DPR 90/2010, si traduce in una vera e propria limitazione della libertà[3]. Per tutti gli altri militari che non hanno l'obbligo della libera uscita, invece, la sanzione è di tipo amministrativo, ma, come vedremo, ha conseguenze indirette sulla sfera dei diritti soggettivi, e segnatamente sul diritto costituzionale alla conservazione del posto di lavoro.
Sia che si tratti di sanzione di tipo penale che a carattere amministrativo, si ritiene che la sanzione della consegna sia in contrasto con il principio di legalità e, pertanto, violi il principio di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione.
La norma, infatti, nell'affermare che "costituisce illecito disciplinare ogni violazione dei doveri del servizio e della disciplina militare sanciti dal presente codice, dal regolamento, o conseguenti all'emanazione di un ordine" appare estremamente generica, potendosi adattare ad una serie indeterminata di mancanze, stante l'elasticità della locuzione "doveri del servizio e della disciplina".
Non soddisfa e non convince, inoltre, la precisazione di cui al successivo art. 1361 del citato D.Lgs, a mente del quale "Con la consegna sono punite:
a) la violazione dei doveri diversi da quelli previsti dall'articolo 751 del regolamento;
b) la recidiva nelle mancanze;
c) più gravi trasgressioni alle norme della disciplina e del servizio".
Non c'è dubbio che la scelta di locuzioni linguistiche quali "violazione dei doveri", "recidiva nelle mancanze" e "gravi trasgressioni alle norme della disciplina e del servizio", si prestano, a causa della loro indeterminatezza, alle più disparate elusioni dei fondamentali diritti del militare.
Per avere un'idea circa la genericità della norma penale/amministrativa, si consideri che tra i doveri del militare vi è anche quello di "avere cura particolare dell'uniforme e indossarla con decoro" (art. 720 comma 4 del DPR 15 marzo 2010, n. 90 - Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare); di curare il suo aspetto esteriore, che "deve essere decoroso come richiede la dignità della sua condizione" (art. 721 DPR citato); di "tenere in ogni circostanza condotta esemplare"; di "improntare il proprio contegno al rispetto delle norme che regolano la civile convivenza"; di "astenersi dal compiere azioni e dal pronunciare imprecazioni, parole e discorsi non confacenti alla dignità e al decoro" (art. 732). Le norme di tratto, invece, prevedono che "la correttezza nel tratto costituisce preciso dovere del militare" (art. 733). Le norme denominate "senso dell'ordine", impongono al militare di "compiere ogni operazione con le prescritte modalità, assegnare un posto per ogni oggetto, tenere ogni cosa nel luogo stabilito" (art. 734). Sembrerebbe quindi che, il compiere un'azione non con le prescritte modalità oppure, tenere un oggetto fuori posto costituisca "violazione dei doveri militari" che può essere punita con la sanzione della consegna semplice.
Infine, con le previsioni di cui agli articoli 717, 718 e 729 del TUROM (senso di responsabilità, formazione militare e esecuzione di ordini) la discrezionalità dell'Amministrazione militare nella comminazione di sanzioni può essere oltremodo fantasiosa. Si consideri che una carabiniera nubile è stata sanzionata con la seguente motivazione da medioevo: «Sebbene nubile e assegnataria di posto letto, pernottava regolarmente all'esterno della caserma e intratteneva contestualmente relazione sentimentale con altro militare dell'arma coniugato, cagionando disagio al servizio istituzionale, in violazione degli artt. 717-732 comma 1 e 5 e 744 comma 3 del Turom» (vale a dire sul «contegno militare»)[4].
E' a tutti evidente, dunque, come la norma che prevede la sanzione della consegna si atteggia come un contenitore all'interno del quale ci può rientrare di tutto, ma proprio tutto.
Stando così le cose, il militare non è posto in condizione di conoscere preventivamente i comportamenti punibili con la sanzione della consegna. All'Amministrazione, invece, viene attribuita la più ampia discrezionalità nello stabilire in relazione a quali illeciti infliggere la sanzione. Detto in altri termini, la volontà del capo costituisce principio di legalità nella comminazione della sanzione, poiché è sanzionabile ogni fatto che lede la norma di cui il Capo è unico interprete.
Tale potere disciplinare, inoltre, risulta dilatato in misura difficilmente sindacabile anche in sede di tutela giurisdizionale.
Come anticipato, la sanzione della consegna non ha una esclusiva rilevanza interna, come alcuni sostengono, è giusto il caso di ricordare che essa viene annotata nella documentazione personale; pertanto ha devastanti effetti sulla carriera del militare ed incide negativamente sull'assegnazione degli incarichi, sui trasferimenti, sull'esito dei concorsi interni, sulla concessione delle ricompense, sull'autorizzazione al NOS (Nulla Osta di Sicurezza). La sanzione coinvolge anche la sfera personale del militare: ha effetti sulla sua autostima e sui suoi rapporti con gli altri militari.
Si tenga a mente, inoltre, che ai sensi dell'art. 751 punto 33) del DPR 90/2010 "l'inosservanza ripetuta delle norme attinenti all'aspetto esteriore o al corretto uso dell'uniforme" (articoli 720 e 721) sono valutate permanenti. Inoltre, tra le cause di cessazione dal servizio si annoverano "le gravi e reiterati mancanze disciplinari che siano state oggetto di consegna per la comminazione della consegna di rigore" (art. 12, 2° comma, lettera c L. 1168/1961). Quindi la sanzione, oltre ad incidere pesantemente sulla carriera del militare (cioè, sul suo diritto alla giusta retribuzione), può portare anche alla risoluzione del rapporto di lavoro, con le immaginabili conseguenze in termini patrimoniali. Tale incidenza non può essere negata neppure se si considera che le predette annotazioni, a seguito di specifica istanza dell'interessato, possono essere eliminate dalla documentazione personale dopo due anni di buona condotta. Va osservato, infatti, che l'eliminazione non ha effetto retroattivo ed avviene previo parere conforme del superiore.
Si ritiene – data l'importanza degli interessi in gioco - che le infrazioni punibili con la consegna debbano essere meglio tipizzate oppure, in alternativa, che le loro conseguenze debbano essere meno invasive della sfera dei diritti dei militari.
A tal proposito, sono scarsamente condivisibili e destituite di fondamento le osservazioni di chi, soprattutto in ambienti vicini agli Stati maggiori, ritiene che sia impossibile tipizzare tutto. Basti solo considerare che esistono, perfino, delle leggi specifiche (ad hoc) che disciplinano la tipologia dei vini d.o.c., a presidio della loro qualità.
E' a tutti evidente l'incommensurabilità dei due interessi tutelati: cioè la protezione di un bene alimentare e commerciale (cetrioli e vino) e la tutela di beni personali ed intrasmissibili (libertà personale, conservazione del posto di lavoro e diritto alla giusta retribuzione). I secondi esigono il rispetto della riserva assoluta di legge, del principio di legalità e di tassatività dell'illecito.

Considerazioni conclusive

Esposizione lunga, ma ne è valsa la pena, perché a questo punto si possono tirare le somme.
I cittadini-militari dal punto di vista dei diritti e delle libertà sono fermi all'anno 1788, cioè a prima della rivoluzione francese, poiché devono ancora conoscere i diritti di prima generazione. L'assenza del principio di legalità alla base della disciplina militare, infatti, li pone in una condizione di quasi sudditanza rispetto alla catena gerarchica. Proprio loro che hanno combattuto e sono morti in guerre non lontane dai nostri ricordi per garantire a tutti noi libertà e democrazia, ne sono rimasti esclusi. Una tale condizione di sudditanza incide senza dubbio sul concetto di obbedienza militare, modificandone i connotati; circostanza questa che non è priva di conseguenze per la democrazia e, di riflesso, per la società civile.
A chi giova una tale obbedienza militare? Ma questo è un altro discorso. Anzi, forse, questo è il vero discorso.

Leggi gli altri contributi dello stesso autore su Studiocataldi.it e su Ficiesse.it
[1] Così scriveva G. Maggiore: «E' reato ogni fatto espressamente previsto come reato dalla legge penale e represso con una pena da essa stabilita. E' altresì reato ogni fatto che offende l'autorità dello Stato ed è meritevole di pena secondo la volontà del Duce unico interprete della volontà del popolo italiano», Diritto penale totalitario nello Stato totalitario; in Rivista italiana di diritto penale, IX [1939], pag. 160.

[2] Il Regolamento dei cetrioli è stato più volte modificato, prima con regolamento CE n. 888/97 e, successivamente, con Regolamento CE 46/2003.

[3] Il provvedimento si ritiene abbia caratteristiche penali nei confronti dei militari che hanno l'obbligo della libera uscita, in quanto, pur non negando che molte caserme (in particolare, i reparti d'istruzione) abbiano spazi interni molto ampi e confortevoli, non è certo facile dimostrare che l'atteggiamento psicologico e lo stato d'animo del militare consegnato (privato della "libera uscita") sia molto diverso da quello di qualsiasi altro detenuto comune posto agli arresti domiciliari per essersi reso colpevole di reati ben più gravi.

[4] Per un approfondimento della vicenda, si rinvia a C. Iafrate, L'ordinamento militare sanziona anche i "peccati", in Studio Cataldi.


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