Data: 24/03/2020 06:00:00 - Autore: Lucia Izzo
di Lucia Izzo - Chi assume di aver subito una condotta vessatoria da mobbing dovrà dimostrare l'intento persecutorio per ottenere il risarcimento del danno per la condotta ascritta del datore di lavoro.
Infatti, l'elemento riqualificante non va ricercato nell'illegittimità dei singoli atti, in quanto non ogni inadempimento genera necessariamente un danno, ma proprio nell'elemento soggettivo che li unifica e che sorregge la condotta del datore di lavoro. Anche l'asserito danno all'immagine e alla professionalità dovrà essere provato dal dipendente con specifiche allegazioni e non in maniera generica.

Risarcimento danno per mobbing

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Sono alcuni dei principi espressi dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, nell'ordinanza n. 7487/2020 (qui sotto allegata) che si è pronunciata sulla vicenda di una docente di un Istituto Comprensivo che riteneva di aver diritto al risarcimento del danno alla professionalità e alla immagine asseritamente derivatole da mobbing.

Nel dettaglio, la docente era stata indicata come responsabile di episodi di coercizione fisica e verbale nei confronti di alcuni alunni e la vicenda era stata oggetto di un procedimento penale, definito con l'archiviazione, e di due ispezioni amministrative (una avente come esito una proposta di trasferimento, l'altra conclusasi senza dar luogo a provvedimenti disciplinari).

I comportamenti mobbizzanti

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Secondo l'insegnante, tale vicenda era stata strumentalizzata per ledere la sua immagine professionale, essendo stati posti in essere, anche con le menzionate ispezioni, ripetuti atti vessatori avvinti da intento persecutorio.

Di diverso avviso il Tribunale, secondo cui, in base alla documentazione prodotta, none era stata raggiunta la prova dei comportamenti mobbizzanti, mentre le allegazioni del danno asseritamente subìto risultavanp generiche. Decisione confermata anche dalla Corte d'Appello che sottolineava come risultava insussistente in particolare la prova dell'elemento essenziale del mobbing, ovvero dell'intento persecutorio.

In Cassazione, la docente lamenta la mancata considerazione dell'autonomo valore della sua figura professionale, "vulnerata nella credibilità con la ripetuta diffusione nello stesso ambito lavorativo di accuse (coercizioni fisiche e verbali nei confronti di alunni sulla base di allegazioni e sospetti rivelatisi infondati) di tale gravità da dissipare la preesistente serenità".

A tal fine, rammenta le fasi della vicenda partita da "false accuse" e dall'individuazione della sua figura "come capro espiatorio alle iniziative disciplinari e amministrative" fino al culmine dell'azione mobbizzante rappresentata dal tentativo di imporle il trasferimento. Ritiene che dall'analisi di queste sarebbe discesa la concreta deduzione del danno.

La prova del danno alla professionalità

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Secondo gli Ermellini, invece, non è così in quanto, nel caso in esame, la ricorrente nulla ha dedotto sulla consistenza del danno alla professionalità, e neppure chiarito quali fossero le "cognizioni professionali" definitivamente e irreparabilmente perdute.

La docente non ha neppure fornito chiarimenti sulle modificazioni delle proprie abitudini di vita e, quanto al danno all'immagine, non aveva chiarito alcunché relativamente alle modificazioni dei comportamenti dell'ambiente lavorativo e sociale nel quale normalmente interagiva. E ciò rende generica l'affermazione di una lesione all'immagine e alla professionalità.

L'elemento essenziale del mobbing: l'intento persecutorio

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Sulla risarcibilità del danno non patrimoniale, la Cassazione rammenta che il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento di una tale tipologia di danno non discende automaticamente dall'inadempimento del datore di lavoro, non potendosi prescindere da una specifica allegazione sul punto (cfr. Cass. n. 19785/2010).

Infatti, non ogni inadempimento genera necessariamente un danno e, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, l'elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subìto la condotta vessatoria, va ricercato non nell'illegittimità dei singoli atti bensì nell'intento persecutorio che li unifica. E questo nel caso in esame non si ritiene essere stato dimostrato.

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