Data: 31/03/2020 15:00:00 - Autore: Laura Muscolino

di Laura Muscolino - L'art. 56 del Codice deontologico forense, approvato dal Consiglio nazionale forense nella seduta del 31 gennaio 2014 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 241 del 16 ottobre 2014, come aggiornato dalle modifiche apportate con delibera del C.N.F. del 23 febbraio 2018 - pubblicata in G.U. n. 86 del 13 aprile 2018 - vieta all'avvocato di colloquiare con la persona minore d'età nel proprio studio senza il previo consenso degli esercenti la responsabilità genitoriale (c. 1), introdotta dal d. lgs. 154/13, sempre che non vi sia conflitto d'interesse con gli stessi.

Il divieto deontologico

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La norma pone, in caso di violazione, la sanzione della sospensione dall'esercizio dell'attività professionale da sei mesi ad un anno (c. 4). Il rispetto dei principi deontologici posti dal Codice, i quali hanno l'obiettivo (art. 3 C.d.f.) di realizzare e tutelare l'affidamento della collettività e della clientela, la correttezza dei comportamenti del legale, la qualità ed efficacia della prestazione professionale, è previsto dalla nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense, L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 3, c. 3. Per quanto la tipizzazione dell'illecito sia intervenuta solo ad opera del nuovo Codice, già il previgente, approvato dal C.N.F. il 17 aprile del 1997, poneva all'art. 6 il dovere di svolgere l'attività professionale con lealtà e correttezza. Tale norma trova corrispondenza nell'odierno art. 9 C.d.f., c. 1: "L'avvocato deve esercitare l'attività professionale con indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo costituzionale e sociale della difesa, rispettando i principi della corretta e leale concorrenza", e risultava, come del resto l'attuale, sprovvista di autonoma sanzione.

La posizione del Consiglio Nazionale Forense

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Il CNF, con sentenza 38/2019, conferma la decisione del 9 dicembre 2013/9 giugno 2014 del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Venezia (procedimento disciplinare n. 37/2011), che aveva inflitto la sanzione della sospensione dall'esercizio della professione per sei mesi nei confronti del legale che aveva ricevuto nel proprio studio un minore e ne aveva raccolto le dichiarazioni alla presenza del genitore decaduto dall'allora potestà genitoriale, ai sensi dell'art. 330 c.c., per decreto del Tribunale dei minorenni di Venezia, e successivamente comunicato all'altro genitore (l'affidatario) la pretesa volontà del minore di trasferirsi presso quello nei cui confronti il provvedimento giudiziale era stato emanato e che non ne aveva più la custodia.

Dalla vicenda, assai tragica (il genitore decaduto aveva falsamente incolpato l'altro di svariati misfatti, tra cui la violenza sessuale nei confronti del minore, e il procedimento per calunnia nei suoi confronti si era concluso con sentenza di assoluzione ex art. 530 c.p.p. solo perché riconosciuto non imputabile ai sensi dell'art. 88 c.p.), il CNF traeva spunto per confermare la decisione del COA lagunare, per il quale, in riferimento alla condotta illecita, tenuta dal procuratore in data 7 novembre 2009 e dunque quando ancora il nuovo Codice era in fieri, veniva violata la disciplina di cui all'art. 6 del previgente C.d.f. e ritenere congrua la sanzione irrogata, pari al minimo edittale del disposto del nuovo art. 56.

Il CNF premetteva il principio per cui il criterio del tempus regit actum può essere derogato per realizzare appieno quello del favor rei solo quando la disciplina del Codice del 31 gennaio 2014 sia più favorevole all'incolpato (Cass., sez. U., sent. n. 3023 del 16 febbraio 2015) ed argomentava come, in assenza di una precisa sanzione per la violazione dei doveri di lealtà e correttezza da parte dell'art. 6 del Codice previgente, la stessa non poteva che individuarsi ai sensi dell'art. 22, c. 1 del Codice, tenuto conto dei criteri di cui al c. 2 e all'art. 21 commi 2, 3 e 4; aggiungeva che la condotta dell'avvocato doveva ritenersi connotata da particolare gravità atteso che gli accertamenti in ambito penale escludevano la commissione di qualsiasi reato da parte del genitore affidatario e nei confronti del minore e, quindi, non era giustificabile il convincimento dell'avvocato in senso opposto: l'incolpato, anche per la delicatezza e scabrosità dei fatti avrebbe meglio agito nel rispetto della legge attivando i rimedi da questa predisposti, e, segnatamente, l'istanza di nomina di un curatore speciale. Nella valutazione di adeguatezza della sanzione, il CNF considera ulteriore e non trascurabile elemento di ponderazione i precedenti disciplinari del ricorrente.

Nemmeno poteva affermarsi che la sanzione nei confronti dell'avvocato determinasse un contrasto con la L. n. 17 del 27 maggio 1991 (di ratifica ed esecuzione della Convenzione sui diritti del fanciullo di New York del 20 novembre 1989), la quale riconosce al fanciullo il diritto di essere ascoltato in ogni vicenda, giudiziaria o amministrativa, che lo concerne: la normativa interna ed internazionale non esclude che l'avvocato, chiamato ad assistere il minore -quand'anche vicino alla maggiore età come nel caso di specie- debba usare speciali cautele e adeguarsi a precise limitazioni, teleologicamente preordinate al conferimento di vigore ed efficacia giuridica agli atti di volizione del minore che si autodetermina, e inette a comprimerne il diritto di espressione (come la regola posta dall'art. 56 del C.d.f. vigente).

Infine, pronunciando sulle difese dell'avvocato, il quale deduceva di essere stato, al tempo dei fatti per cui è causa, nell'ignoranza sia del nome del difensore del genitore affidatario sia della decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre del minore, il Consiglio Nazionale Forense riteneva irrilevanti le circostanze, nell'assorbente considerazione che il minore fosse stato affidato al padre e che tale aspetto fosse stato conosciuto dall'incolpato.

La sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione

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Le sezioni unite con sentenza n. 7530/2020 ratificano il provvedimento del Cnf:

Ratifica del provvedimento del CNF

Il ricorso in Cassazione, proposto a norma dell'art. 36, c. 6, l.p.f. dall'avvocato sanzionato, fornisce alle Sezioni Unite l'occorrenza per una compiuta ermeneutica della questione:

  • Si ritiene immune da vizi la decisione del CNF nella parte in cui individua nella gravità dell'addebito e nella conoscenza, da parte dell'avvocato, dell'elemento fattuale dato dalla qualità di genitore affidatario in capo al padre del minore, elementi sufficienti a determinare l'irrilevanza dell'ignoranza di altre circostanze; la si conferma inoltre, nonostante la stessa avesse preso le mosse da una denuncia invalida giacché priva di procura speciale e non confermata dall'audizione dei denuncianti, in quanto la stessa si era comunque appalesata congruo strumento per portare a conoscenza del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati la notizia di rilievo deontologico, scienza idonea a far discendere l'obbligo di questo di avviare il procedimento d'ufficio, essendo ai fini dell'insorgenza di tale dovere bastevole l'esposto di un privato (art. 50, c. 4, l.p.f.).
  • La censura, da parte del ricorrente, della sproporzione della sanzione applicata è giudicata, conformemente all'orientamento espresso da ultimo con sentenza n. 1609 del 24 gennaio 2020 (cfr. Cass., sez. U., sent. n. 8615 dell'8 aprile 2009), inammissibile dacché il relativo apprezzamento attiene al merito e non è sindacabile in sede di legittimità se suffragato da motivazione adeguata ed esente da difetti logico-giuridici.
  • La statuizione del CNF, nell'esercizio della propria potestà giurisdizionale, aveva rispettato il principio di correlazione tra contestazione e decisione, poiché per le Sezioni Unite il leitmotiv della condotta imputata al ricorrente si sostanziava nell'inosservanza delle regole prudenziali poste dalla normativa interna e internazionale in materia di ascolto del minore (fattispecie atipica al momento del contegno lesivo, ma rientrante nel contenuto del previgente art. 6 C.d.f.); per di più, come costantemente rammentato dalle Sezioni Unite (es. sentenza n. 8313 del 25 marzo 2019), le previsioni del codice deontologico forense hanno natura di fonte meramente integrativa dei precetti normativi e si possono ispirare legittimamente a concetti diffusi e generalmente compresi dalla collettività. In modo conseguente, il diritto di difesa dell'iscritto all'albo forense è tutelato ed esercitato nell'ambito del procedimento disciplinare intrapreso nei suoi confronti quando all'incolpato venga contestato il comportamento ascritto come integrante la violazione deontologica e non già il nomen iuris o la rubrica della ritenuta infrazione: il giudice disciplinare è libero d'individuare la precisa morfologia della violazione tanto in clausole generali, quanto in diverse norme deontologiche o anche di ravvisare un fatto disciplinarmente rilevante in condotte atipiche non previste da dette norme, risultando attenuato l'obbligo di specificità della contestazione.

Inammissibile ricorso avverso decisione CNF

Le Sezioni Unite ribadiscono altresì il principio enunciato con sentenza n. 16993 del 10 luglio 2017, dichiarando inammissibile il ricorso proposto avverso il Consiglio Nazionale Forense dal momento che lo stesso è giudice speciale, istituito con il d. lgs. lgt. 23 novembre 1944, n. 382 e tuttora legittimamente operante - giusta la previsione della sesta disposizione transitoria della Costituzione.

Il CNF non può essere evocato dinanzi alle Sezioni Unite sui ricorsi avverso le proprie sentenze: la funzione di giudice terzo, indipendente e imparziale, coperta dall'art. 108, c. 2 e 111, c. 2 Cost. esclude in modo radicale che possa farsi destinatario del ricorso alle Sezioni Unite in quanto privo di legitimatio ad causam come titolarità (qui: passiva) dell'azione civile.

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