Data: 03/04/2020 09:00:00 - Autore: Annamaria Villafrate

di Annamaria Villafrate - La Corte di Cassazione con la sentenza n. 7566/2020 (sotto allegata) respinge il ricorso di una lavoratrice che, dopo il periodo di malattia di 60 giorni, in autonomia, si è posta in ferie e per questo si è vista recapitare la lettera di licenziamento. Come chiarito dagli Ermellini, il lavoratore, una volta cessata la ragione dell'assenza, non può rifiutarsi di presentarsi sul posto di lavoro, perché in questo modo si impedisce al datore di decidere se è opportuno dare alla lavoratrice, in questo caso assente per malattia, una diversa collocazione rispetto alle mansioni precedenti.

Licenziamento alla scadenza del periodo di comporto

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La Corte d'Appello conferma la sentenza del Tribunale, che ha respinto la domanda di annullamento del licenziamento intimato con lettera da una S.r.l datrice a causa dell'assenza ingiustificata di una lavoratrice per diversi giorni consecutivi. La lavoratrice infatti si è collocata in ferie alla scadenza del periodo di comporto, senza chiedere la preventiva autorizzazione.

Licenziamento per assenze ingiustificate

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La lavoratrice ricorre in Cassazione lamentando con il primo motivo come la Corte abbia considerato legittimo il licenziamento intimato dalla datrice anche in riferimento a giorni di assenza contestati con lettere precedenti, che avevano dato luogo a procedimenti autonomi.

Con il secondo censura la decisione della Corte nella parte in cui ha ritenuto ingiustificate le assenze della lavoratrice, poiché il rifiuto addotto da quest'ultima era legittimato, stante l'omessa sottoposizione della stessa a visita medica da parte della S.r.l datrice di lavoro.

Con il terzo contesta la decisione del giudice dell'impugnazione perché ha ritenuto presupposto per l'applicazione dell'art. 41 comma 2 dlgs. n. 81/2008 la presenza in azienda del lavoratore, mentre dal tenore della norma emerge che il reingresso del dipendente che si è assentato per più di 60 giorni continuativi, deve essere preceduto dalla visita medica.

Legittimo licenziare la lavoratrice che continua ad assentarsi dopo la malattia

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La Cassazione, con sentenza n. 7566/2020 rigetta il ricorso della lavoratrice per le ragioni che si vanno a esporre.

Il primo motivo è infondato per assenza del vizio di ultra-petizione da parte della Corte d'Appello, che si è limitata a richiamare le lettere di addebito precedenti alla contestazione del 3 settembre 2014 e alla successiva lettera di licenziamento del 23 settembre 2014, senza fondare su queste la decisione finale.

Parimenti infondati il secondo e il terzo motivo, valutati congiuntamente. L'art. 41 del dlgs n. 81/2008, che prevede la visita medica prima di riprendere il lavoro dopo 60 giorni di assenza per malattia, deve essere interpretata nel senso che per "ripresa del lavoro", rispetto a cui la visita deve essere precedente, è rappresentata dall'assegnazione concreta del lavoratore dopo che questo faccia ritorno in azienda, per verificare se può essere assegnato alle mansioni svolte prima del periodo di assenza.

Il lavoratore quindi, venuta meno la ragione dell'assenza dal posto di lavoro, non può rifiutarsi di presentarsi sul posto di lavoro. Tale presentazione è necessaria per dare la possibilità al datore di verificare se è il caso di collocare diversamente il lavoratore all'interno dell'azienda, una volta rientrato dalla malattia, anche in via provvisoria e in attesa della visita medica.

Come sancito ormai da giurisprudenza consolidata del resto: "il lavoratore assente per malattia non ha incondizionata facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, quale titolo della sua assenza, allo scopo di interrompere il decorso del periodo di comporto, ma il datore di lavoro, di fronte ad una richiesta del lavoratore di conversione dell'assenza per malattie in ferie, e nell'esercitare il potere, conferitogli dalla legge (art. 2109, secondo comma, cod. civ.), di stabilire la collocazione temporale delle ferie nell'ambito annuale armonizzando le esigenze dell'impresa con gli interessi del lavoratore, è tenuto ad una considerazione e ad una valutazione adeguate alla posizione del lavoratore in quanto esposto, appunto, alla perdita del posto di lavoro con la scadenza del comporto; tuttavia, un tale obbligo del datore di lavoro non è ragionevolmente configurabile allorquando il lavoratore abbia la possibilità di fruire e beneficiare di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto per superamento del periodo di comporto (…)."

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