Data: 14/04/2020 15:30:00 - Autore: Laura Muscolino

La Suprema Corte si è espressa più volte e di recente in materia di protezione umanitaria. Nelle ultime sentenze della Cassazione vengono chiarite anche differenze e affinità con le ipotesi di protezione "maggiore".

Ecco le ultime decisioni della S.C.:

Il contenuto necessario del ricorso in Cassazione

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L'art. 366, c. 1, n. 6, c.p.c., novellato dal d. lgs. n. 40/2006, non richiede soltanto l'indicazione di atti, documenti, contratti e accordi collettivi posti a fondamento del ricorso, ma pure che sia specificata la sede processuale nell'ambito della quale la produzione del documento è avvenuta. La condizione è rispettata ove il documento si trovi nel fascicolo di parte dei precedenti gradi di giurisdizione, ritualmente prodotto nell'ultimo, e accompagnato dalla menzione della sede in cui il documento può essere consultato, secondo l'interpretazione già data dalla costante giurisprudenza della Suprema Corte (cfr. Sez. U., ord. n. 7161 del 25 marzo 2010; sez. VI-III, n. 27475 del 20 novembre 2017). Ne consegue che il richiamo al provvedimento emanato dalla Commissione territoriale e alle proprie argomentazioni difensive contenute nell'atto introduttivo del giudizio dinanzi al Tribunale o nell'atto di appello, senza la loro contestuale "localizzazione", vale a dire senza individuare dove essi siano rinvenibili e, ancor più, mancando la produzione del fascicolo di parte nelle fasi di merito, non soddisfa la prescrizione normativa e rende inammissibile, in quanto non autosufficiente, il ricorso in Cassazione. L'inammissibilità è posta come sanzione, al n. 3 dell'art. 366, c. 1, c.p.c., per l'ulteriore ipotesi di assenza di narrazione essenziale dei fatti di causa, che rende non autonomo il ricorso: la fattispecie si verifica quando, come nel caso di specie, esso non consenta di ricostruire le decisioni (e i motivi delle pronunce) della Commissione territoriale e del Tribunale, e/o i motivi d'appello svolti dal ricorrente (cfr. sez. U., sent. n. 11308 del 22 maggio 2014) (Cass. ordinanza n. 7635/2020).

Protezione umanitaria e protezione maggiore

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La Corte ribadisce la peculiarità della figura della protezione umanitaria, da distinguersi rispetto alle due ipotesi di c.d. protezione maggiore (internazionale e sussidiaria). La prima, infatti, avente natura residuale ed atipica e presupposti non standardizzabili, era disciplinata dall'art. 5, c. 6, d. lgs. 286/98, il quale, anteriormente al d.l. n. 113 del 4 ottobre 2018, "Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell'Interno e l'organizzazione e il funzionamento dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata", convertito in L. n. 132 dell'1 dicembre 2018 (e con disposizione applicabile al caso esaminato ratione temporis) prevedeva: "Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano". La stessa consentiva dunque di ottenere il permesso di soggiorno anche in assenza dei presupposti per il riconoscimento delle altre forme di protezione (status di rifugiato o protezione internazionale, art. 4 d. lgs. n. 25 del 28 gennaio 2008 e protezione sussidiaria, art. 14, d. lgs. n. 251 del 19 novembre 2007), a fronte tuttavia di un preciso onere di allegazione del richiedente, avente ad oggetto fatti specifici, ulteriori e difformi rispetto a quelli posti a fondamento delle domande di protezione maggiore (Cass., sez. 1, ord. n. 21123 del 7 agosto 2019). Se risponde al vero che la protezione umanitaria può essere concessa anche (e solo quando) non sussistono i presupposti per la protezione sussidiaria, non vi è alcuna ragione giuridica che porti a riconoscere ipso facto, meccanicamente, quella umanitaria quando non sia dato consentire alla prima ovvero al riconoscimento dello status di rifugiato, specialmente ove manchi la deduzione di circostanze fattuali diverse: ad esempio, se il rischio di essere sottoposto all'esecuzione della pena di morte o a tortura, posto a fondamento della domanda di protezione sussidiaria, è giudicato insussistente, non potrà giustificare la protezione umanitaria; nel caso di specie, il ricorrente non aveva individuato alcuna ragione puntuale idonea a dare corpo alla sua allegata vulnerabilità, riferendo solo fatti a tal fine irrilevanti, quali il soggiorno in Italia da tre anni e il coinvolgimento in un percorso integrativo, comunque sfornito di prova. Si noti che l'omessa, nitida deduzione della specifica situazione di vulnerabilità presente nel caso concreto è ripetutamente considerata dalla Corte motivo atto al rigetto della domanda di protezione umanitaria (di fresca data Cass. civ., sez. 1, ord. n. 7627, 7632 e 7633 del 31 marzo 2020; per i principi in materia, v. infra).

La situazione di vulnerabilità che legittima la protezione umanitaria

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La protezione umanitaria viene accordata quando la titolarità nell'esercizio dei diritti umani fondamentali nei quali si esplica la dignità della persona, nel loro contenuto minimo e ineliminabile, sia suscettibile di venire meno nel caso di rimpatrio; la valutazione dev'essere realizzata tenendo in considerazione non - in generale e in astratto - la situazione del Paese d'origine del richiedente, bensì quella privata e familiare del migrante, in Italia e nel proprio Paese, e quest'ultima sia in quanto già vissuta prima dell'approdo nello Stato italiano, sia in quanto persistente, e della quale di conseguenza il soggetto si troverebbe nuovamente vittima se costretto al rientro nel territorio di provenienza. Così, la scarsa tutela, nel Paese di provenienza, del diritto alla salute e all'alimentazione è censura generica e inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria (Cass. civ., sez. 1, sent. n. 7424 del 18 marzo 2020); il livello di integrazione nel Paese d'accoglienza è elemento di estrema rilevanza ma solo se documentato con prove "localizzabili" nel senso in precedenza esposto e se tale processo di inserimento non è isolatamente considerato bensì accompagnato dall'impossibilità per il singolo richiedente, nello Stato di cui è cittadino, di soddisfare i bisogni ineludibili della vita (lo stesso concetto viene affermato in Cass. civ., sez. 1, ord. n. 7599 del 30 marzo 2020): ciò non determina una violazione dell'art. 8 della CEDU ("Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare […]), in quanto il diritto soggettivo de quo va bilanciato con altri interessi, compresi quelli, contrapposti, dello Stato di accoglienza, all'applicazione e al rispetto delle leggi in materia di immigrazione (cfr. Cass. n. 7629/2020).

Successione di leggi nel tempo e disciplina applicabile

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Il d.l. 113/18 ha abrogato l'istituto della protezione umanitaria, così emendando il contenuto dell'art. 5, c. 6, d. lgs. 286/98: "Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti". Le Sezioni Unite, con sentenza n. 29460 del 13 novembre 2019, facendo propria l'interpretazione maggioritaria inaugurata dalla sez. 1, n. 4890 del 19 febbraio 2019, in tema di successione delle leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria, hanno ritenuto che il diritto alla protezione, estrinsecazione di quello costituzionale di asilo, sorge tramite e al tempo dell'ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità connesse al rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e l'istanza mirante al conseguimento del relativo permesso attrae il regime normativo applicabile; per le esposte ragioni, la normativa introdotta con il d.l. n. 113 del 2018, convertito con legge n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la previgente normativa contemplata dal d. lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e dalle altre disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell'entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi, l'accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell'entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, convertito nella legge n. 132 del 2018, comporterà il rilascio del permesso di soggiorno per casi speciali previsto dall'art. 1, comma 9, del suddetto decreto legge, a norma del quale: "Nei procedimenti in corso, alla data di entrata in vigore del presente decreto, per i quali la Commissione territoriale non ha accolto la domanda di protezione internazionale e ha ritenuto sussistenti gravi motivi di carattere umanitario allo straniero è rilasciato un permesso di soggiorno recante la dicitura «casi speciali» ai sensi del presente comma, della durata di due anni, convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo o subordinato […]" (cfr. Cass. n. 7599/2020).

Onere della prova

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Come nei casi di rifugio, anche nell'ambito della protezione umanitaria trova applicazione il principio del beneficio del dubbio, enunciato dalla CEDU (R.C. v. Svezia, 9 marzo 2010, par. 50; N. v. Svezia, 20 luglio 2010, par. 53; A.A. v. Svizzera, 7 gennaio 2014, par. 59) per la valutazione di credibilità delle dichiarazioni e dei documenti dei richiedenti: un'intrinseca difficoltà emerge dal rapporto dell'UNHCR, Beyond Proof Credibility Assessment in EU Asylum Systems: "nonostante gli sforzi che il richiedente (ed eventualmente anche la stessa autorità accertante) possa fare per cercare di raccogliere le prove dei fatti affermati, può darsi che permangano tuttavia dubbi relativamente a tutte o ad alcune delle sue affermazioni"; talvolta, la stessa vita o l'incolumità del richiedente potrebbero essere messe a rischio ove la protezione gli fosse ingiustamente negata. Laddove permanga un elemento di dubbio, l'applicazione del criterio del beneficio del dubbio in favore del richiedente permette ai funzionari preposti all'esame delle domande di raggiungere una conclusione chiara sulla possibilità di accettare la credibilità di un fatto, reputando definitivamente accertato il fatto verosimile (cfr. Cass. n. 7546/2020).


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