Data: 11/05/2020 16:30:00 - Autore: Filippo Pirisi

Avv. Filippo Pirisi - Preliminarmente occorre inquadrare soggettivamente l'atleta professionista chiedendosi, quando, ed alla luce di quali condizioni, assume detto status.

L'inquadramento soggettivo dello sportivo professionista

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Il testo di riferimento è contenuto nella storica Legge n. 91/1981 la quale, per prima, ha tracciato i confini giuridici del concetto di "atleta professionista", intendendolo come lo sportivo che esercita, a titolo oneroso, attività (meglio precisata nell'art. 3) a favore di una Società nell'ambito delle discipline CONI e che, dallo stesso, sono state riconosciute, appunto, come professionistiche. Riscontro lo si trova nel fatto che, solo a partire dall'emanazione di detta Legge, è stato riconosciuto anche il rapporto di lavoro sportivo, disciplinato sì in maniera parzialmente diversa rispetto all'ordinario rapporto di lavoro subordinato sia, per altri aspetti, in maniera molto simile. E' un rapporto di lavoro atipico, che si costituisce con assunzione diretta mediante stipula di un contratto con forma scritta ad substantiam, predisposto ogni tre anni dalle Federazioni sportive e dai rappresentanti di categoria. Deve essere depositato presso la Federazione di riferimento che lo approva perfezionandolo. Inoltre, sebbene di lavoro subordinato si tratti, non può esistere a tempo indeterminato ma ha durata massima di cinque anni.

Prevede, inoltre, all'art. 5, un'esplicita deroga rispetto a quanto previsto dallo Statuto dei Lavoratori proprio rispetto agli accertamenti sanitari oggi oggetto di argomento.

La vigilanza sulla salute dell'atleta professionista

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La vigilanza sulla salute dell'atleta professionista è un aspetto particolarmente delicato poiché, come o forse di più del lavoratore ordinario, nel caso dello sportivo essa è parte essenziale e contingente della prestazione contrattualmente offerta, così come è indubbio che in occasione di detta prestazione, soprattutto in certe discipline, vi sia un'implicita accettazione della potenziale incisione sulla salute stessa dell'atleta. La tutela della salute, peraltro, è graniticamente sancita quale diritto dell'individuo ed interesse della collettività, specificatamente prevista come obiettivo fondamentale dello Stato nell'art. 32 Cost..

Nello specifico dell'atleta professionista, punto di partenza è l'art. 7 della Legge n. 91/1981, il quale prevede che l'attività debba svolgersi sotto controlli medici indicati dalle norme delle singole Federazioni sportive nazionali ed approvate con decreto del Ministero della Sanità. E' così previsto l'obbligo della redazione di una scheda sanitaria per ciascuno sportivo, il cui aggiornamento deve avvenire con cadenza semestrale, contenente gli accertamenti clinici e diagnostici obbligatori. Deve poi essere aggiornata e custodita dalle Società e degli atleti. L'istituzione e l'aggiornamento costituiscono condizione essenziale perché avvenga l'autorizzazione e, soprattutto, il perfezionamento da parte delle singole federazioni allo svolgimento dell'attività. Infatti, se dovesse risultare una non-idoneità alla pratica agonistica, l'esito (ricorribile dinanzi all'apposita Commissione entro trenta giorni), con l'indicazione della diagnosi, viene comunicato, entro cinque giorni, all'atleta ed al competente ufficio federale, mentre alla Società viene comunicato il solo esito negativo senza la motivazione. In caso di trasferimento ad altra Società, la scheda deve essere aggiornata agli otto giorni precedenti e deve essere trasmessa dal medico sociale di provenienza al medico sociale di destinazione.

Certamente rilevanti sono poi le disposizioni atte a garantire il diritto alla salute nello svolgimento diretto dell'attività sportiva. Significative sono la Legge n. 833/1978, istitutiva del S.S.N., ed il D. Lgs. n. 626/1994, in tema di accorgimenti in materia di sicurezza sul lavoro e di salute dei lavoratori che, per ovvia analogia, debbono intendersi applicabili anche alle Società proprietarie o gestrici di luoghi frequentati assiduamente dagli sportivi loro dipendenti, quali ad esempio i centri sportivi nei quali si svolgono gli allenamenti.

La figura del medico sociale

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Fondamentale è poi l'inquadramento giuridico del medico sociale delle Squadre, al quale è demandato il ruolo di responsabile sanitario della Società. E' il responsabile della stesura, per ciascun atleta, della scheda sanitaria, del suo aggiornamento e della sua custodia. Tale previsione non si esaurisce nella mera verifica della sua esistenza ma trova riscontro nella necessità che gli esami clinici e diagnostici eseguiti abbiano una loro diretta previsione e siano stati non solo eseguiti ma verificati dal medico stesso con la dovuta attenzione, precisione e specializzazione, essendogli demandato, per la massima tutela dell'atleta-dipendente, l'obbligo giuridico di effettuare anche tutti gli ulteriori accertamenti necessari caso per caso, anche ove non siano esplicitamente previsti.

A ben vedere, in questo modo non può non notarsi un'evidente centralità dell'aspetto relativo alla prevenzione finalizzata alla riduzione al minimo del rischio di fatti infausti. Riscontro di ciò, a parere di chi scrive, trova conferma, però, in uno degli aspetti più controversi della disciplina relativo al fatto che i professionisti sportivi, pur avendo acquisito il riconoscimento di lavoratori subordinati ed essendo, anche in ragione di ciò, destinatari dell'imposizione fiscale, sono estromessi dal S.S.N.. Infatti, se da un lato è pur vero che, realisticamente, l'atleta professionista e la Società preferirebbero comunque usufruire di strutture specialistiche sia, appunto, per la loro specializzazione sia per non dover attendere le tempistiche del S.S.N., non si può negare che una privazione aprioristica di un diritto riconosciuto ad ogni cittadino (art. 63 L. 833/1978) rappresenti un qualcosa di rilevante.

I regimi di responsabilità

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Come detto, Società ed atleti devono sottostare a determinati obblighi giuridici. Le Società, infatti, incorrono in responsabilità non solo quando non ottemperano alle suddette prescrizioni dell'art. 7, ma anche, oltre alla assorbita disciplina successiva alla Riforma Gelli che ha fugato ogni dubbio circa la responsabilità extracontrattuale del medico, anche e specificatamente ex art. 2087 c.c., quando si rendono negligenti nell'esecuzione di quelle misure che, vista la specificità della disciplina praticata e l'evoluzione della scienza medica, sono indispensabili al fine della migliore tutela della salute e dell'integrità psico-fisica dello sportivo.

Oltre a quanto sopra, rileva l'ulteriore e personale responsabilità del medico sociale per eventi che colpiscono l'atleta se erroneamente autorizzato a svolgere e/o proseguire lo svolgimento dell'attività agonistica oggetto della sua prestazione professionale. Il medico sociale sarà infatti chiamato a rispondere, per dolo o colpa grave, ogniqualvolta si macchi della mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali della professione o, ancora, per difetto di abilità e perizia tecnica nell'uso di mezzi strumentali diagnostici. Per correttamente valutare detti profili di responsabilità non si può fare a meno di riferirsi a conoscenze e competenze della moderna medicina sportiva, e quindi dell'insieme delle capacità professionali che devono appartenere al bagaglio dello specialista. La giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, ha infatti sul punto precisato che non è sufficiente il semplice riferimento a cognizioni, per quanto fondamentali o indicate dal Ministero, generiche, dovendosi piuttosto pretendere una dovuta specializzazione alla luce del rapporto professionale da svolgersi nell'interesse di un soggetto che, come l'atleta, esplica la propria personalità e professionalità facendo della propria salute una condizione essenziale della prestazione. E' quindi corretto sostenere che la responsabilità del medico sociale non si potrà contestare solo alla luce della tutela al diritto alla salute, ma, ancor di più, anche nell'ottica dei diritti delle Società che, nell'ingaggiare proprio quell'atleta, ha certamente fatto legittimo affidamento sulle sue capacità atletiche e sul suo stato di salute, tanto da investirci risorse finanziarie e programmatiche.

Ci si riferisce a speciali funzioni professionali, certamente atipiche rispetto alla prestazione professionale medica in senso stretto, che trovano riscontro negli articoli 71 e 75 del Codice deontologico medico, nel quale la gerarchia delle priorità del professionista sanitario, ancorché nell'equilibrio degli interessi sportivi ed imprenditoriali delle Società, sono tali da lasciar chiaramente intendere che egli debba, prioritariamente, occuparsi della tutela dell'integrità psicofisica dello sportivo, lasciando in secondo piano eventuali interessi economici o sportivi. Criteri, questi, che insieme a quelli più generali del diritto, hanno trovato riscontro in numerosi precedenti, alcuni dei quali dotati di particolari casistiche che meritano un'attenzione particolare. Sullo svolgimento dell'attività medica, infatti, incorrerà in responsabilità professionale per violazione dell'obbligo di diligenza ex art. 1176, II comma, c.c., e del dovere di protezione che su di lui grava, il medico che, non tenendo in adeguata considerazione una pregressa patologia, rilasci un certificato di buona salute del paziente-atleta, potenzialmente utilizzabile per un numero indeterminato di attività, così colpevolmente dando un contributo causale al verificarsi del danno (Cass. Civ., Sez. III, n. 3353/ 2010). O, ancora, incorre in responsabilità per omicidio colposo il medico specialista in caso di condotta negligente ed imperita qualora ometta, nella sua qualità, di compiere i più approfonditi accertamenti strumentali finalizzati all'accertamento di eventuali patologie dell'atleta (Cass. Pen., Sez. IV, n. 38154/2009).

Il fondamentale precedente della Cassazione Penale, Sez. IV, n. 38154/2009

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L'interessante pronuncia origina dalla condanna, già in primo grado, comminata ad un medico ritenuto colpevole di omicidio colposo per avere omesso, nella sua qualità di specialista dell'apparato cardiovascolare operante in regime di collaborazione con un centro di medicina sportiva, di compiere più approfonditi accertamenti strumentali idonei all'accertamento della diagnosi di cardio miopatia ipertrofica, di cui era affetto un giovane atleta deceduto, proprio per tale causa, in una partita sotto l'egida della F.I.G.C.. Il ragazzo si era, infatti, regolarmente sottoposto alle visite medico sportive ed il medico, visionati i tracciati degli elettrocardiogrammi a riposo e sotto sforzo, gli aveva rilasciato il certificato di idoneità cui era seguito il perfezionamento del tesseramento. Dalle risultanze probatorie era apparso che tale patologia, se la lettura dei referti fosse stata approfondita, sarebbe dovuta essere individuata dallo specialista e posta alla base del rifiuto del rilascio del certificato: la condotta del medico, quindi, era ritenuta connotata da gravi profili di colpa connessa eziologicamente all'evento morte.

Particolarità significativa di questa decisione fu che, in solido con il professionista, oltre al centro per la culpa in vigilando, anche la F.I.G.C. era condannata al risarcimento dei danni. In riferimento alla sua posizione, i Giudici ritenevano configurata la responsabilità indiretta per il fatto illecito dell'autore diretto perché, avendo la Federazione liberamente deciso di avvalersi, ai fini della tutela medico sportiva degli atleti, a prestazioni rese da medici esterni alla sua struttura. In questo modo, avendo così deciso di accettare, automaticamente, facendola propria, la certificazione di idoneità all'attività sportiva da essi rilasciata, non può ritenersi esonerata dall'obbligo di tutela, essendo esso condizione essenziale indicata nel suo Statuto e, pertanto, ne consegue la responsabilità ex art. 2049 c.c. per il fatto illecito colposo addebitabile al preposto. Allo stesso modo, è chiamata a rispondere anche exart. 1228 c.c., costituendo il fatto illecito dell'ausiliario, dannoso per i terzi, una chiara fattispecie di inadempimento contrattuale rispetto all'obbligazione principale (di tutela medico-sportiva) assunta nei confronti dell'atleta. Anche la Corte di Appello di Milano riteneva di confermare integralmente tale giudizio e le sue motivazioni.

La F.I.G.C., ritenendosi astrattamente sprovvista dei poteri di direzione e di controllo su un soggetto terzo, rifiutando di configurarlo come un proprio ausiliario, proponeva ricorso per Cassazione ma anche la Suprema Corte riteneva di non doverne escludere la responsabilità indiretta ex art. 2049 c.c.. Precisava, infatti, che i giudici di merito avessero individuato la fonte della legittimazione passiva della F.I.G.C. in modo corretto ed ovvero quale responsabile civile, per ben due profili. Il primo, della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, sulla base del fatto che il minore fosse un tesserato della Federazione calcistica e che sia deceduto durante una competizione ufficiale. Il secondo, sulla premessa che la F.I.G.C. si è (auto)qualificata, nell'art. 1 del proprio Statuto, come un'associazione riconosciuta con personalità giuridica di diritto privato con lo scopo di promuovere, disciplinandola, l'attività calcistica, ha portato la Corte a ritenere condivisibile l'assunto per cui, al momento del perfezionamento del tesseramento, l'atleta acquista lo status di parte di un vincolo avente natura contrattuale al punto che la F.I.G.C., in forza di esso, si è assunta la responsabilità sulla vigilanza della tutela medico-sportiva degli atleti per come prevista dall'art. 3 di detto Statuto. La F.I.G.C., quindi, ha l'obbligo giuridico di garantire la tutela medico sportiva dei propri tesserati e, se decide di affidare tale vigilanza a terzi esterni al loro rapporto, siano anche medici specialisti, ciò non può comportarne l'esenzione di responsabilità.


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