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Data: 17/01/2007 - Autore: www.laprevidenza.it La Cassazione penale, con la sentenza del 12 luglio 2006, n. 33619, depositata il 6 ottobre 2006, si è pronunciata in materia di colpa professionale di equipe medica ed è tornata sui criteri di imputazione soggettiva della responsabilità e sul concetto di “errore evidente” ad un “professionista medio”. Questa la massima: “ogni sanitario è responsabile non solo del rispetto delle regole di diligenza e perizia connesse alle specifiche ed effettive mansioni svolte, ma deve anche conoscere e valutare le attività degli altri componenti dell'"èquipe" in modo da porre rimedio ad eventuali errori posti in essere da altri, purché siano evidenti per un professionista medio, giacché le varie operazioni effettuate convergono verso un unico risultato finale". Si tratta della dibattuta questione circa il dovere di vicendevole controllo cui sono tenuti i medici che svolgono attività di gruppo, al fine di porre riparo ad eventuali errori evidenti e rilevabili con il supporto delle conoscenze comuni del cosiddetto “professionista medio”. Nel caso di specie, peraltro, la Cassazione si è limitata a confermare la decisione emessa dalla Corte d'Appello di Catanzaro, che a sua volta aveva sostanzialmente confermato la decisione di primo grado del Tribunale di Cosenza di condanna di due medici (anestesisti) per la morte di una partoriente. La Corte distrettuale aveva fatto rilevare che si era trattato di "errori piuttosto banali e comunque relativi proprio alla attività di anestesista", commessi durante “un banalissimo intervento di taglio cesareo, eseguito su persona del tutto sana e priva di controindicazioni all'anestesia, deceduta soltanto a causa di una errata manovra di intubazione”. In particolare, nella fase di merito è stato accertato che la morte della partoriente, nel corso dell'intervento di parto cesareo, era stata causata da una errata manovra di intubazione a seguito di anestesia generale. L'anossia prolungata che aveva causato la morte era stata determinata dal fatto che “la cannula per ben due volte era stata introdotta nell'esofago invece che in trachea”. Al manifestarsi dei primi sintomi di sofferenza da ipossigenazione i due sanitari erano stati indotti ad una nuova introduzione del tubo nella trachea; ma nonostante il secondo tentativo la situazione era degenerata in arresto cardiaco, che aveva portato al decesso della paziente. La responsabilità dell'anestesista (I. U) intervenuto in seconda esigenza (stando alla sua tesi difensiva avrebbe svolto un ruolo del tutto marginale nella vicenda), è stata basata “sull'imperita auscultazione polmonare nella prima intubazione” – eseguita dal suo collega – e sull'errata intubazione effettuata una seconda volta personalmente:“questi non si è avveduto della prima manovra di intubazione eseguita dal B.R. ed ha provveduto ad effettuare la seconda, erronea; sicché “ha partecipato attivamente alle due fasi dell'anestesia, entrambe errate”. In realtà la Cassazione, con la recente decisione, ha confermato un orientamento già più volte espresso dalla stessa sezione (cfr. Cass.Sez.IV, 24 gennaio 2005 n. 18548; Cass.Sez.IV, 6 aprile 2005 n° 22579; Cass.Sez.IV, 2 marzo 2004 n. 24036; Cass.Sez.IV, 1 ottobre 1999). La massima che meglio sintetizza gli orientamenti giurisprudenziali sull'argomento, a giudizio dello scrivente, è quella maggiormente citata (dalla più recente giurisprudenza) tratta dalla sentenza n. 24036/2004 sopra indicata. Vale la pena riportarla per maggior chiarezza e per un quadro più completo della situazione: “In tema di colpa professionale, nel caso di "equipes" chirurgiche e, più in generale, in quello in cui ci si trovi di fronte ad ipotesi di cooperazione multidisciplinare nell'attività medico-chirurgica, sia pure svolta non contestualmente, ogni sanitario, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, è tenuto ad osservare gli obblighi ad ognuno derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico. Ne consegue che ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l'attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio o facendo in modo che si ponga opportunamente rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali e, come tali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio”. (Cass. pen. Sez. IV, 02-03-2004, n. 24036) Situazione diversa si prospetta quando gli errori siano “particolari” e “settoriali”, afferenti a discipline specifiche e specialistiche e soprattutto quando non siano evidenti, quindi, rilevabili ed emendabili con il sussidio di conoscenze scientifiche del professionista medio. In tal caso, per farne soltanto cenno, può valere il cosiddetto “principio dell'affidamento” in base al quale ogni “specialista” non può considerarsi vincolato a improntare la propria condotta in funzione del rischio di comportamenti colposi altrui, in quanto può fare affidamento sul fatto che gli altri “specializzati” agiscano diligentemente e nell'osservanza delle regole di propria competenza. La Cassazione per definire il suddetto principio ha usato espressioni del seguente tenore: - “principio secondo il quale ciascuno può contare sull'adempimento, da parte degli altri, dei doveri su di essi incombenti” (Cass. pen. Sez. IV, 26-01-2005, n. 18568); - “principio secondo il quale ogni consociato può confidare che ciascuno si comporti adottando le regole precauzionali normalmente riferibili al modello di agente proprio dell'attività che di volta in volta è in esame, ed ognuno deve evitare unicamente i pericoli scaturenti dalla propria condotta” (Cass. pen. Sez. IV, 26 maggio 1999, n. 8006). A proposito del significato che si può dare alla locuzione “principio dell'affidamento”, la stessa decisione 8006/1999 ha spiegato che “significa semplicemente che di regola non si ha l'obbligo di impedire che realizzino comportamenti pericolosi terze persone altrettanto capaci di scelte responsabili”. Tuttavia, è stato chiarito che il suddetto principio “non può essere invocato quando colui che si "affida" sia in colpa, per avere violato determinate norme precauzionali o per avere omesso determinate condotte e, ciò nonostante, confidi che altri, che eventualmente gli succede nella stessa posizione di garanzia, elimini quella violazione o ponga rimedio a quella omissione” (Cass. pen. Sez. IV, 26 maggio 1999, n. 8006 - Cass. pen. Sez. IV, 26-01-2005, n. 18568). In tal caso, è stato precisato, “ne deriva che ove, anche per l'omissione del successore, si produca l'evento che una certa azione avrebbe dovuto e potuto impedire, l'evento stesso avrà due antecedenti causali, non potendo il secondo configurarsi come fatto eccezionale, sopravvenuto, sufficiente da solo a produrre l'evento”. Le osservazioni che precedono, sul concetto di “errore evidente” e sul “principio dell'affidamento”, aiutano a cogliere alcune specificità della vicenda giudiziaria conclusasi con la decisione in commento. Nella concreta fattispecie, quanto ai destinatari dell'esercizio dell'azione penale, sembrerebbe non essere stato coinvolto nel giudizio il chirurgo che, ricevuto il “beneplacito all'inizio dell'intervento” rapidamente “aveva provveduto pochissimi minuti dopo la prima intubazione all'apertura della fascia addominale ed alla rapida estrazione del feto” (salvandolo!). Evidentemente, non gli è stata attribuita alcuna responsabilità in quanto l'errore (anche se definito banale!) consistito nella non corretta intubazione (introduzione della cannula nell'esofago, anziché nella trachea), seguito da “prolungata anossia conseguente a mancata intubazione”, deve essere stato considerato “errore evidente” per un “anestesista medio”, quindi settoriale dell'attività anestesiologica , ma estraneo alle possibilità di intervento del chirurgo. La prima conclusione che si può trarre (generalizzando) è che in materia di colpa professionale d'equipe medica per “errore evidente” di alcuni componenti (es. degli anestesisti), per altri (es. i chirurghi) può non esserci alcuna imputazione di responsabilità e possono rimanere persino estranei alla vicenda giudiziaria. Quindi, in ogni vicenda (gravi lesioni o di omicidio colposo), dovendosi esercitare l'azione penale, diventa di non secondaria importanza lo stabilire preliminarmente se l'”errore evidente” sia, per così dire, un errore “comune”, in grado di coinvolgere nell'addebito di responsabilità l'intera equipe, oppure sia particolare o settoriale. Tanto per fare un esempio, se si può pensare che un chirurgo possa porre rimedio ad un “banale” errore dell'anestesista, più difficile risulta pensare che un anestesista possa rimediare ad un errore pur evidente del chirurgo (sostituendosi). Esemplificativa, a tal proposito, una decisione della Procura della Repubblica di Verbania: “In un intervento di tracheotomia gli anestesisti possono, una volta segnalato al chirurgo l'errore nel quale è incorso, attendere che questi vi ponga rimedio, non avendo motivo per ritenere che fosse incapace di effettuare un'operazione manuale, che sapevano che aveva compiuto molte altre volte”. “Imprudenti sarebbero invece stati se si fossero subito sostituiti al chirurgo, esautorandolo dall'operazione, per tentare una manovra alternativa più lunga e difficile di quella che il collega doveva a quel punto eseguire”. “Proprio in considerazione di questo”, aggiunge la Procura, “si deve escludere che tale manovra fosse connotata da doverosità per cessazione del principio dell'affidamento nell'equipe chirurgica sulla corretta esecuzione dei propri compiti da parte di uno dei suoi membri”. Così conclude: “non solo gli anestesisti non avevano, per posizione gerarchica, un obbligo di prevenire e correggere l'errore del chirurgo, né, in relazione alle concrete circostanze del reato, il comportamento inefficiente di quest'ultimo era in qualche modo da loro prevenibile ed evitabile; ma soprattutto non si manifestava in modo così clamoroso da autorizzarli a sostituirsi completamente a lui”. (Proc. Rep. Verbania Trib., 11-03-1998 – fonte Indice Pen., 1999, 1187 nota di MANTOVANI) Si può trarre la conseguenza che la cooperazione colposa di più persone prevista dall'articolo 113 del Codice penale, nel qual caso ”ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso” può ben essere ipotizzata e configurarsi per una parte dell'equipe: quella anestesiologica o chirurgica, rimanendone estranea l'altra parte. La precisazione, che può sembrare superflua, ha lo scopo di attenuare l'impressione, di un coinvolgimento generale, sempre e comunque, dell'intera equipe, data soprattutto dalle massime giurisprudenziali. Tale sensazione è determinata da espressioni giurisprudenziali come quelle che seguono, contenute anche dalla decisione in commento: “ogni sanitario è responsabile non solo del rispetto delle regole di diligenza e perizia connesse alle specifiche ed effettive mansioni svolte”; “deve anche conoscere e valutare le attività degli altri componenti dell'"equipe”; “deve porre rimedio ad eventuali errori posti in essere da altri”. Un'altra considerazione che si può fare, si ricollega al fatto che nella precedente giurisprudenza all'”errore evidente” è stato (quasi) sempre possibile abbinare anche un comportamento negligente o imprudente dei responsabili. Nella vicenda da ultimo decisa la responsabilità per errore evidente, in mancanza di qualsiasi riferimento alla negligenza o all'imprudenza, sembra fondarsi sulla sola imperizia e quindi sull'incapacità degli anestesisti. (Altalex - Nota di Giuseppe Mommo) LaPrevidenza.it, Cassazione , sez. IV penale, sentenza 12.07.2006 n° 33619 |
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