Data: 29/06/2020 08:00:00 - Autore: Annamaria Villafrate

Risarcimento danni per mobbing

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Con l'ordinanza n. 12364/2020 (sotto allegata) la Cassazione torna a ribadire che chi agisce in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni fisici, psicologici e di relazione riportati a causa di condotte mobbizzanti di colleghi e superiori deve dimostrare che le vessatorie e prevaricatrici denunciate sono ingiustificate.

Decisione quella della Cassazione che ha messo il punto a una causa per mobbing intrapresa da un'agente di polizia municipale, che in primo grado ha ottenuto soddisfazione con il riconoscimento di un risarcimento di 40.000 euro. Peccato che poi la Corte d'Appello abbia ribaltato la decisione, respingendo la domanda risarcitoria avanzata dall'agente nei confronti del Comune, di un comandante e di un sottotenente di Vigili Urbani.

Parte attrice in giudizio ha sostenuto infatti che nei suoi confronti i convenuti abbiano messo in atto veri e propri atti persecutori e di intolleranza, esternati attraverso controlli continui, iniziative disciplinari pretestuose e condotte aggressive riconducibili in particolare al sottotenente.

Versione dei fatti che la Corte d'Appello, diversamente dal giudice di primo grado, non integrerebbe un caso tipico di mobbing. Ad avviso del giudice di seconde cure infatti le testimonianze non hanno confermato i fatti narrati dall'attrice. A parte le dichiarazioni rese da un avvocato, legato sentimentalmente all'agente, gli altri testimoni hanno ritenuto insussistenti i comportamenti persecutori ravvisati dall'attrice nei suoi confronti.

La Corte inoltre non ha ritenuto sufficiente a dimostrare il mobbing la CTU disposta sull'agente, a cui ha diagnosticato una reazione da stress ricollegabile alle vicissitudini lavorative, che però non ha trovato riscontro in nessun rapporto inoltrato dal sottufficiale e in alcun provvedimento dell'amministrazione datrice.

Di nessun rilievo poi le accuse mosse al Comandante, poiché nelle circostanze narrate dall'attrice costui ha in realtà preso provvedimenti anche nei confronti di altri agenti, contestando a ragione violazione degli ordini di servizio e ritardi rispetto all'orario di lavoro. La Corte ha infine escluso una situazione di emarginazione dell'agente, la cui carriera si è evoluta con uno sviluppo regolare.

Mobbing: aggressioni e vessazioni psicologiche sistematiche e progressive

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L'agente di Polizia, insoddisfatta dell'esito del giudizio di merito, ricorre in Cassazione sollevando due motivi di ricorso con i quali contesta alla Corte la negazione della sussistenza del mobbing e l'erronea valutazione del materiale probatorio.

Per la ricorrente il mobbing infatti si realizza "nell'aggressione o vessazione psicologica con violazioni ostili di carattere sistematico che abbiano certa durata, che diano vita a un fenomeno ad andamento progressivo e che possono sfociare in atti apparentemente poco significativi ma che di fatto ostacolano il normale espletamento dell'attività lavorativa ovvero in atti di contenuto tipico, compiuti cioè dal datore di lavoro o dai superiori, strettamente inerenti il rapporto di lavoro."

La Corte ha poi, secondo la ricorrente, dato più rilievo ad alcune testimonianze, trascurato la copiosa documentazione prodotta da cui è emersa la sussistenza di un rapporto di lavoro malato e svalutato la CTU che ha riconosciuto il nesso tra sintomi ansioso depressivi e problemi sul posto di lavoro.

Chi chiede i danni da mobbing deve provarlo

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La Cassazione con l'ordinanza n. 12364/2020, dopo una attenta analisi del caso, dichiara il ricorso inammissibile in quanto entrambe le censure sono finalizzate a una diversa valutazione del giudizio di merito, non consentita in sede di legittimità.

Ad avviso degli Ermellini la Corte d'Appello nel giudicare le condotte "mobbizzanti" denunciate dalla ricorrente ne ha condiviso la definizione che è poi quella conforme a quella della giurisprudenza di legittimità "secondo cui ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere:

  • una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
  • l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  • il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità e/o nella propria dignità;
  • l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi."

Per la Cassazione le risultanze di causa sono state puntualmente analizzate e hanno rivelato una situazione conflittuale tra la ricorrente e il sottotenente, ma non così grave da ricondurre le condotte del collega a un intento persecutorio. Dalle prove è emerso inoltre che il superiore ha agito nell'ambito dei suoi poteri, che in diverse occasioni ha agito anche nei confronti di altri agenti e che le violazioni degli ordini di servizio contestati alla ricorrente erano tutt'altro che pretestuose perché i ritardi, anche se poi giustificati, erano reali.

Per la Cassazione quindi la Corte d'Appello ha correttamente ritenuto insufficiente la prova fornita dalla ricorrente a sostegno dei suoi diritti relativamente alle condotte vessatorie, prevaricatrici ed ingiustificate tenute da colleghi e superiori nei suoi confronti, essendo emerso piuttosto un quadro di ordinaria conflittualità ricollegabili alle dinamiche tipiche dell'ambiente di lavoro.

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