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Data: 23/11/2020 11:00:00 - Autore: Francesca Quadrini
La nozione di coppia di fatto e le differenze con la convivenza di fatto[Torna su]
La dicitura coppia di fatto viene utilizzata per indicare due persone che convivono e che hanno scelto di non procedere ad una formalizzazione della loro unione mediante un matrimonio o un'unione civile; tali soggetti, il cui sesso non assume rilevanza, non devono essersi registrati in comune per l'attestazione di una convivenza di fatto, istituto divergente e riconosciuto ad opera della legge. Non è necessario che decorra un periodo di tempo definito per divenire coppia di fatto, essendo tale qualifica, nella prassi, attribuibile a due persone che vivono insieme e che sono legate da affetto e dalla volontà di assistersi reciprocamente. Per chiarire meglio le differenze che intercorrono tra la coppia di fatto e la convivenza di fatto, occorre precisare che prima del 2016 le coppie di fatto erano rappresentate da tutti quei conviventi che avevano scelto di non contrarre matrimonio, giacché non vi era altra formalizzazione possibile. A tal proposito, la legge n. 76 del 20 maggio 2016 - legge madre della disciplina - più comunemente conosciuta come legge Cirinnà, ha introdotto le unioni civili e le convivenze di fatto, andando a scalfire quanto consolidato nella prassi. Appare evidente che, ad oggi, possono formare una coppia di fatto soltanto coloro che non si sono sposati, cui si somma, come quid pluris, l'assenza della formalizzazione della loro convivenza al comune di residenza. Ne consegue che non sussiste alcuna tutela giuridica mirata, anche se la mancanza di un'apposita regolamentazione non fa sì che le coppie di fatto restino meramente invisibili agli occhi dello Stato. La legge Cirinnà consente a coloro che fanno parte di una coppia di fatto di rendere giuridicamente rilevante il legame affettivo, e non la convivenza, nonostante non sussista alcun vincolo da un punto di vista strettamente legale. Ai fini del riconoscimento dello "status" di convivenza di fatto, è necessario recarsi all'ufficio dell'anagrafe del comune di residenza per perfezionare una dichiarazione mirata, volta a far sorgere una serie di diritti. Si tratta di una mera iscrizione che consente di riconoscere tale coppia come stabile. Siamo al cospetto di una mera facoltà, e non di un obbligo, che è richiesta nella sola ipotesi in cui la coppia di fatto, che non deve compiere operazioni specifiche per dirsi tale, voglia formalizzare la propria unione. In definitiva, occorre un'autocertificazione in carta libera mediante la quale i conviventi dichiarano di convivere allo stesso indirizzo; a seguito degli accertamenti necessari, il Comune provvederà al rilascio del certificato di residenza e allo stato di famiglia, la cui certificazione fa sorgere una serie di diritti. La registrazione all'anagrafe si può effettuare fisicamente, ma anche via fax o internet. Stando alla sopracitata legge Cirinnà, possono costituire una coppia di fatto due persone, divenute maggiorenni, dello stesso sesso o di sesso divergente, la cui unione deriva da un legame affettivo stabile, in cui vi è reciproca assistenza morale e materiale; non deve, inoltre, esistere alcun vincolo di parentela, di affinità o di adozione, oltre alle già menzionate unioni (civili e/o matrimoniali). In mancanza dell'elemento formale, ovverosia il vincolo matrimoniale derivante dalla celebrazione, si focalizza l'attenzione sull'elemento materiale, rappresentato dalla coabitazione, che diviene il fulcro della coppia di fatto tanto che, senza (diuturna) coabitazione, viene meno la sussistenza del rapporto attestato.[1]
Le implicazioni giuridiche derivanti dal riconoscimento della coppia di fatto[Torna su]
La legge Cirinnà, quando ha introdotto le convivenze di fatto e le unioni civili, ha previsto che due persone che stanno insieme, se vogliono essere riconosciute dallo Stato, godendo dei diritti assimilabili a quelli dei coniugi, devono rendere formale la loro convivenza, procedura che, come accennato in precedenza, si attua attraverso la registrazione dell'unione recandosi al comune di residenza, realizzando così una convivenza di fatto. Ove ciò non avvenga, la coppia che semplicemente convive sotto lo stesso tetto realizza una mera coppia di fatto e non può, pertanto, godere dei diritti riconosciuti dalla legge alla convivenza di fatto. Ciò non significa che il compagno o la compagna della coppia di fatto non abbiano diritti e/o doveri reciproci, ma la fonte di questi, anziché rinvenibile nella legge attraverso un'elencazione ben precisa, deriva soprattutto dall'interpretazione giudiziale che negli anni ha regolato tali rapporti, dirimendo i conflitti che di volta in volta sono stati sottoposti all'attenzione dei giudici nel momento in cui la relazione è cessata. In altri termini, ogni coppia di fatto riceverà una tutela in base a ciò che negli anni è stato asserito dalla giurisprudenza, che ha sviluppato alcuni strumenti in termini di diritti e doveri. In merito al diritto di subentrare nel contratto di locazione, stante l'affitto della casa in cui si è svolta la convivenza, risulta condizione necessaria la morte di uno dei conviventi, con il limite della naturale scadenza relativa al contratto. Volgendo lo sguardo agli altri diritti attribuibili alle coppie di fatto, un altro problema di non agevole lettura si ha in merito all'affidamento dei figli. Posto che i figli devono essere gestiti da ambo i genitori anche a seguito dell'avvenuta separazione, sussiste il dovere di occuparsi reciprocamente del mantenimento e dell'educazione dei figli, nonché i diritti di visita e di affidamento condiviso. Una tutela specifica viene apprestata nei confronti dei minori, stante la vulnerabilità ricondotta alle figure in esame. Si rammenti che la legge non fa alcuna distinzione tra figli nati all'interno del matrimonio, figli nati da relazioni extraconiugali oppure figli di persone meramente conviventi: in tutte queste ipotesi i bambini conservano il diritto di essere mantenuti, istruiti ed educati. Pertanto, avendo riguardo al diritto di affidamento dei figli, non assume rilevanza alcuna la modalità dell'unione genitoriale. Quanto al risarcimento dei danni, il relativo diritto sorge, in alcuni casi, in via consequenziale alla violazione degli obblighi familiari. Basti pensare alla mancata assistenza morale e materiale in alcune ipotesi specifiche, quali l'abbandono della compagna (convivente) incinta in condizioni economiche di disagio; in tal caso, l'ex convivente ha diritto ad essere risarcito per i danni subiti in violazione degli obblighi familiari. Una tematica delicata concerne i maltrattamenti in famiglia. Del pari rilevante deve ritenersi che uno dei diritti intangibili di qualsiasi convivente consiste nel continuo rispetto, la cui assenza di maltrattamenti (fisici e/o psicologici) ne rappresenta una parte integrante. Il reato di maltrattamenti in famiglia sussiste non soltanto nelle coppie unite da vincolo matrimoniale, bensì in ogni tipo di convivenza, sia essa certificata o meno. Va preliminarmente rilevato, in proposito, che il codice penale recita che "chiunque maltratta una persona della famiglia o comunque convivente è punito con la reclusione da tre a sette anni", ex art. 572 c.p.;[2] il legislatore intende predisporre una forma di tutela specifica nei confronti dell'integrità psicofisica di persone facenti parte di contesti familiari o parafamiliari. Infine, nel caso in cui vi sia una convivenza stabile tra uno straniero e un cittadino italiano, a prescindere dall'unione matrimoniale, è possibile ottenere il permesso di soggiorno, purché si dimostri, in concreto, che il rapporto consente di trarre mezzi leciti di sostentamento.[3] Nondimeno, qualora uno straniero risulti convivente in Italia con una donna incinta, non può essere espulso.[4] Diritti e doveriVa specificato che, oltre ai diritti delle coppie di fatto esposti in questa sede, vi è una serie di diritti e/o doveri non riconosciuti in capo a tale forma di convivenza non certificata, tra i quali si menzionano: - il dovere alla fedeltà, essendo ope legis rilevante per le sole coppie unite in matrimonio; - il diritto a ricevere l'assegno di mantenimento a seguito della separazione che, si rammenti, sussiste esclusivamente per le coppie sposate;[5] - il diritto a godere dell'eredità del convivente defunto, anche se lo status di erede legittimo può sorgere a seguito dell'inclusione nel testamento del partner della coppia di fatto, con il limite che non potrà beneficiare di tutta l'eredità, giacché la legge prevede che il patrimonio spetta di diritto ai familiari più stretti; - il diritto alla pensione di reversibilità in caso di morte del convivente; - la possibilità di costituire un fondo patrimoniale, essendo tale facoltà prevista esclusivamente per le coppie sposate, al fine di tutelare il patrimonio immobiliare. Ciononostante, la legge consente di dar vita ad un vincolo di destinazione o, in alternativa, di istituire un trust per tutelare gli interessi riferibili ai figli nati dall'unione. Per trasferire un bene o un diritto al partner, si può, in ogni caso, ricorrere ad un contratto di vendita o di donazione.
Il ricorso all'istituto giuridico del comodato gratuito[Torna su]
Quanto illustrato serve a comprendere che, secondo la giurisprudenza prevalente il convivente nell'ambito di una coppia di fatto non può essere considerato un mero ospite nella casa del compagno, bensì un comodatario, in mancanza di altro titolo posto a base del rapporto dalle parti del medesimo. Pertanto, i diritti e gli obblighi incombenti sulle parti, per quanto attiene alla casa di abitazione della coppia di fatto, vanno ricondotti e regolati secondo la disciplina del comodato gratuito. Orbene, una problematica frequente che attiene alla convivenza riguarda il diritto del partner a rimanere in casa alla fine della relazione. Nel caso in cui la proprietà dell'abitazione in cui si è svolta la convivenza sia attribuibile esclusivamente ad uno dei partner, al termine della relazione l'altra parte vanta di un diritto di possesso, che gli consente di restare in casa per un periodo di tempo necessario a cercare nuove abitazioni. La ragion d'essere di tale previsione consiste in una forma, seppur lieve, di tutela, che consente di non ritrovarsi ex abrupto senza i mezzi necessari per una collocazione stabile. Ne deriva che è del tutto pacifico il riconoscimento del diritto del partner a permanere nella casa di proprietà dell'altro in cui si è svolta la convivenza anche al termine della relazione, ma solo per il periodo necessario a trasferirsi in una nuova casa, con ciò evitando uno spossessamento vietato dal nostro ordinamento. Va specificato che sul comodatario grava senz'altro l'obbligo di custodia dell'abitazione, esteso anche ai beni in esso contenuti nei limiti della disponibilità del soggetto, che include anche le perdite avvenute per causa a lui imputabile. Il custode è infatti il soggetto che ha la disponibilità effettiva di una cosa, e i relativi poteri di controllo sulla medesima; tale disponibilità non riguarda i beni personali del partner.
Conclusioni[Torna su]
Prendendo le mosse da una questione di gran lunga attuale, quale il riconoscimento delle coppie di fatto, va chiarito che l'affermarsi di un diverso modello familiare ha posto una serie di dubbiosità in merito alla disciplina giuridica applicabile ai coniugi che ne fanno parte, stante il silenzio del legislatore. La categoria della coppia more uxorio si pone in antitesi nei confronti della normativa vigente in ambito penale e processuale penale, cui ricorre spesse volte la nozione di "prossimi congiunti". Ciononostante, è innegabile la possibilità di porre in essere una coppia di fatto, manifestazione indefettibile dell'esercizio di una sfera di libertà, in cui si può leggere, tra le righe, la volontà di sottrarsi agli effetti tipici e vincolanti della istituzionalizzazione, in termini di diritti e doveri reciproci. Come abbiamo visto, la giurisprudenza ha, negli anni, consolidato una tutela "implicita" ormai solida nella prassi. Si auspica, tuttavia, una svolta definitiva che possa tradursi in un apposito intervento legislativo. [1] M. GORGONI, Unioni civili e convivenze di fatto, Rimini, 2016, 191 ss. [2] L'art. 572 c.p., rubricato "Maltrattamenti contro familiari o conviventi", recita che "Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi. La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno di minore degli anni quattordici. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni. Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato". [3] V. Tar Liguria, Sent. n. 25/2015. [4] V. Cass. Sent. n. 3373/2014. [5] È opportuno precisare che, ai fini della concessione del diritto agli alimenti, deve intercorrere un diverso accordo scritto tra i conviventi non riconosciuti; i conviventi di fatto, invece, hanno diritto a ricevere, ex lege, gli alimenti qualora versino in condizioni di gravi difficoltà. |
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