Data: 21/11/2020 10:00:00 - Autore: Annamaria Villafrate

Licenziamento per ingiuria e molestie nei confronti dei colleghi

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Niente da fare per il lavoratore che ingiuria le colleghe e addirittura ne molesta una. Il licenziamento irrogato è più che legittimo perché quando il dipendente tiene condotte così gravi, mette a repentaglio irrimediabilmente il rapporto di fiducia che si è creato con il datore di lavoro. Queste le conclusione della Cassazione nella sentenza n. 25977/2020, pronunciata all'esito della complessa vicenda giudiziaria che si va a illustrare.

Un programmatore viene licenziato per aver pronunciato frasi ingiuriose nei confronti delle colleghe, aver messo in atto molestie ai danni di una di loro e aver effettuato un accesso non autorizzato sul conto corrente del marito di quest'ultima. Il Tribunale dopo aver accertato l'effettiva sussistenza degli addebiti contestati e ritenuta proporzionata l'espulsione, rigetta le istanze del dipendente. Dopo l'opposizione di cui all'art. 1 comma 51 legge n. 92/2012 lo stesso Tribunale revoca la precedente decisione e dichiara il licenziamento illegittimo, con condanna della società datrice al reintegro del lavoratore, al pagamento di un'indennità e alla regolarizzazione assistenziale e previdenziale.

La società datrice però avanza reclamo, che la Corte d'Appello accoglie, rigettando il ricorso del lavoratore. La Corte ritiene che si è formato un giudicato interno sulla decisione del Tribunale che ha dichiarato inammissibile la domanda del lavoratore finalizzata a ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali e che ha escluso la ritorsività del licenziamento. I fatti addebitati inoltre sono stati provati e il licenziamento è stato giudicato legittimo e proporzionato alla condotta. Dal punto di vista formale infine il licenziamento è stato ritenuto legittimo perché il datore di lavoro ha tutto il diritto di verificare che i propri dipendenti utilizzino gli strumenti messi a loro disposizione per finalità "esclusivamente" professionali.

Licenziamento illegittimo e sproporzionato?

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Il dipendente soccombente ricorre quindi in Cassazione sollevando i seguenti motivi di ricorso.

  • Con il primo sostiene di non aver eccepito nel merito la natura ritorsiva del licenziamento, per cui la Corte d'Appello ha errato nel ritenere come passato in giudicato il rigetto di questa domanda.
  • Con il secondo censura la falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. sull'onere della prova e ritiene che, a differenza di quanto dichiarato dalla Corte d'Appello, le prove del primo grado di giudizio non erano idonee a dimostrare la legittimità del licenziamento.
  • Con il terzo, stante l'insussistenza dei fatti che gli sono stati contestati, l'addebito mosso nei suoi confronti non risulta fondato.
  • Con il quarto lamenta l'assenza di giusta causa e difetto di proporzionalità tra la condotta e il licenziamento, anche alla luce della condotta irreprensibile tenuta nel corso di tutto il rapporto lavorativo.
  • Con il quinto infine contesta l'affermazione della Corte, secondo la quale il datore di lavoro deve verificare l'uso esclusivamente professionale dei mezzi messi a loro disposizione.

Il lavoratore che non rispetta le colleghe lede la fiducia del datore

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La Cassazione con la sentenza n. 25977/2020 rigetta il ricorso, partendo dall'analisi del secondo motivo, che ritiene infondato.

La Corte ritiene che il giudice di seconde cure abbia applicato correttamente quanto previsto dall'art. 5 della legge n. 604/1966, che prevede l'onere probatorio della giusta causa del licenziamento in capo al datore di lavoro, ritenendo corretta la valutazione che ha poi portato la società a licenziare il dipendente. Le condotte del dipendente infatti hanno violato in modo così grave gli obblighi contrattuali, che era impossibile proseguire il rapporto, non potendo il datore continuare a nutrire fiducia nei confronti di un dipendente che si è reso responsabile di condotte così gravi ai danni delle proprie colleghe di lavoro.

Inammissibile il terzo motivo perché finalizzato ad un riesame della circostanza di causa già esaminata in sede di merito, che ha ritenuto gravi i fatti contestati al dipendente.

Infondato il quarto motivo. La Corte ha ritenuto che le molestie addebitate al lavoratore nei confronti della collega e l'accesso non autorizzato al conto del di lei marito, fossero di una tale gravità da giustificare la massima sanzione espulsiva. Per la Cassazione tale valutazione di fatto è motivata, coerente e rispettosa dei principi giuridici in materia e corretta anche dal punto di vista dell'inquadramento normativo, tanto è vero che lo stesso lavoratore non ha sottoposto la decisione a censure specifiche, quanto piuttosto a critiche finalizzate ad ottenere una diversa valutazione dei fatti.

Infondato anche il quinto motivo perché il datore, nel mettere in atto i controlli dopo l'accesso non autorizzato del dipendente al conto del marito della collega, non ha leso in alcun modo la dignità e la riservatezza del dipendente. In base a un accordo sindacale del 2014 inoltre il datore era legittimato ad eseguire i controlli in presenza di indizi di reato, sussistenti nel caso di specie.

Inammissibile per carenza di interesse sull'oggetto della censura infine il primo motivo. L'accertata ricorrenza della giusta causa di licenziamento provoca infatti l'irrilevanza della censura di rito sulla questione della ritorsività del licenziamento.

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