Data: 27/03/2021 22:00:00 - Autore: Lucia Izzo

Alienazione genitoriale nelle aule giudiziarie: il dibattito

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Quello della c.d. Sindrome da Alienazione Genitoriale o da Anaffettività Genitoriale (Parental Alienation Syndrome - PAS) è un tema particolarmente sensibile, non solo per gli interessi in gioco che involgono anche e soprattutto i minori, ma anche per i possibili risvolti che la valorizzazione di questo fenomeno potrebbe avere (e in parte ha già avuto) aule giudiziarie.

La sigla fa riferimento e quegli atteggiamenti con cui i minori coinvolti in contesti di separazione e divorzio conflittuale dei genitori, non adeguatamente mediati, diventano vittime di "un'ipotetica e controversa dinamica psicologica disfunzionale" ovvero fortemente influenzati (si dice addirittura "soggiogati") da uno dei genitori per allontanarsi e rifiutare l'altro.

Per approfondimenti: L'alienazione parentale

Il dibattito ha coinvolto diversi esperti nella comunità scientifica, psicologi, ma anche giuristi, e riguarda, in primis, la possibilità che possa effettivamente parlarsi di una vera e propria "sindrome", circostanza su cui permangono diversi dubbi e che la maggioranza della Comunità scientifica e legale internazionale non ritiene di condividere.

Nonostante la mancanza di evidenze scientifiche nella letteratura medica, la Sindrome da Alienazione Genitoriale ha però trovato spazio in diverse occasioni all'interno del settore giudiziario, con non poche critiche. In questa discussione, alimentata da sempre maggiori contributi da parte degli esperti del settore, si è anche innestata una recente nota, datata 29 maggio 2020, con cui il Ministro della Salute, Roberto Speranza, ha risposto a un'interrogazione parlamentare facendo il punto sulla questione "PAS" in Italia.

Le conclusioni della Procura Generale della Cassazione

Anche la Corte di Cassazione ha messo in discussione spesso la validità scientifica della PAS e, sul punto, appaiono particolarmente importanti le recenti osservazioni (qui sotto allegate) rese dalla Procura Generale in occasione dell'udienza camerale del 15 marzo 2021 (procedimento n. 36260/19).
Si ha riguardo alla vicenda di un bambino, allontanato dalla madre e collocato in casa famiglia a seguito delle denunce di violenza a carico del padre. Nonostante di tali violenze avesse parlato chiaramente lo stesso bambino in occasione di alcune dichiarazioni, la Corte d'Appello ha scelto di mantenere l'affidamento del minore al servizio sociale e la sua collocazione in casa famiglia.

La vicenda giunge in Cassazione e la Procuratrice generale, Francesca Ceroni, invita gli Ermellini ad accogliere il ricorso della madre e a cassare la sentenza impugnata. Al centro della sua disamina è posto il "diritto fondamentale del bambino alla integrità fisica e alla sicurezza", profilo sul quale i giudici di merito avrebbero omesso qualsiasi accertamento e valutazione, senza neppure spiegare la decisione di comprimere la responsabilità genitoriale della madre.
La Procuratrice, pur non menzionando espressamente la PAS, evidenzia come il provvedimento impugnato non abbia indicato alcun fatto, circostanza o comportamento tenuto dalla madre e pregiudizievole al figlio, evocando solo concetti evanescenti, come "l'eccessivo invischiamento", "il rapporto fusionale", rispetto ai quali "è impossibile difendersi non avendo essi base oggettiva o scientifica, essendo il risultato di una valutazione meramente soggettiva".
Ancora, la Corte territoriale avrebbe imputato alla madre "di aver indotto al convincimento che l'interazione con un genitore (la madre) dovesse determinare l'esclusione dell'altro e del di lui ramo familiare".

Diritto del fanciullo a mantenere la continuità affettiva

La Procura richiama, in prima battuta, la giurisprudenza della stessa Cassazione (cfr. Cass. 7041/2013) che in caso analogo ha stigmatizzato "la decisione di sottrarre un bambino all'ambiente materno, con il quale il rapporto - indipendentemente dalla ritenuta condotta "alienante" - non presenta altre controindicazioni, per collocarlo (...) in una struttura educativa".
Successivamente, la stessa giurisprudenza (Cass. 6919/2016) ha affermato che, qualora un genitore denunci comportamenti di allontanamento morale e materiale del figlio da sé a causa dell'altro genitore, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità del fatto dei suddetti comportamenti e deve altresì accuratamente accertare le ragioni del rifiuto del genitore che, nella vicenda in esame, non sono state approfondite in alcun modo.
Pertanto, si ritiene che la decisione impugnata violi "non tanto il principio di bigenitorialità, ma il diritto del fanciullo a mantenere la continuità affettiva e di cura con la madre, oltre a violare il suo diritto alla conservazione all'habitat domestico, da intendersi come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare, che per giurisprudenza costante deve essere protetto in quanto luogo che maggiormente favorisce l'armonico sviluppo psico-fisico del minore" (ex multis Cass. 32231/18).

La Convenzione di Istanbul e il Codice Rosso

Fondamentale è anche il richiamo alla normativa sovranazionale operato dalle conclusioni depositate dalla Procura Generale, a partire della Convenzione di Istanbul che, essendo stata ratificata con la legge n. 77/2013, si colloca al di sopra della legge, costituendo "parametro interposto nel giudizio di costituzionalità", ai sensi dell'art. 117, primo comma, della Costituzione.
L'art. 31 della Convenzione "impone di escludere non solo l'affidamento condiviso, ma anche qualunque contatto autore-vittima, nel caso in cui emerga una forma di violenza tra quelle previste dalla Convenzione medesima."
E per la Procura la Corte territoriale ha violato la norma sovranazionale appena richiamata, nonché la direttiva 2012/29/UE (con specifico riferimento alle vittime vulnerabili come sono i minorenni), omettendo totalmente di approfondire gli episodi di percosse riferiti dal bambino e di verificare gli esiti dei procedimenti penali, seguendo un vecchio paradigma per il quale giudizio civile e giudizio penale corrono su binari separati.
Parametro superato anche dal legislatore italiano che, nel varare il "Codice Rosso", all'art. 64 bis att. c.p.p ha previsto la trasmissione obbligatoria dei provvedimenti al giudice civile "ai fini della decisione dei procedimenti di separazione personale dei coniugi o delle cause relative ai figli minori di età o all'esercizio della responsabilità genitoriale".

Audizione dei minori

Non solo il documento in commento ritiene manchi una qualunque valutazione sulle condizioni psico-fisiche e sociali del bambino, necessaria ad una motivazione sul suo "best interest" non meramente assertiva (cfr. Cass. 3819/20), ma si ritiene anche violato il diritto fondamentale del bambino all'ascolto.
Il diritto vivente (a partire da Cass. SS.UU. 22238/2009 e tra le più recenti conformi Cass. 16410/2020) ha infatti fatto proprio il principio per il quale "l'audizione dei minori di età che abbiano compiuto i 12 anni o anche gli infradodicenni se capaci di discernimento, già prevista nell'art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario, nelle procedure giudiziarie che li riguardino e costituisce, pertanto violazione del principio del contraddittorio e dei principi del giusto processo il mancato ascolto che non sia sorretto da espressa motivazione sull'assenza di discernimento che ne può giustificare l'omissione".
Il giudice è dunque tenuto a motivare adeguatamente le ragioni per le quali ritiene di adottare un provvedimento contrario alla volontà chiara e reiterata manifestata dal minore capace di discernimento, mentre nel caso in esame la Corte territoriale non ha neppure riportato in modo sintetico i bisogni, le opinioni, le aspirazioni espressi dal minore, né in alcun modo indicato le ragioni per le quali essi non coincidono con il suo "best interest".

Condizionamenti psicologici

La Procura ritiene che tale omissione, comunque da censurare, sia probabilmente da ricondursi all'idea, che permea l'intero provvedimento, della "totale adesione" del bambino al pensiero della madre e dunque della inaffidabilità della sua volontà in quanto manipolata.
Tuttavia, "l'irrilevanza di condizionamenti psicologici non provati e non dimostrabili non costituisce solo un punto di vista, che il giudice può adottare o respingere, ma un corollario dell'applicazione della legge e di principi costituzionali definiti dalla Corte costituzionale fondamentali, tra cui il principio di determinatezza" (ordinanza n. 24/2017).
Particolarmente interessante è il richiamo a quanto stabilito dalla Consulta nella sentenza n. 96/81, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del reato di plagio (art. 603 c.p.), in quanto impossibile da provare l'accertamento del "totale stato di soggezione" di un soggetto ad un altro.
Si tratta di una sentenza che, si legge nelle conclusioni, esprime un principio che "dovrebbe essere comunque assunto a punto di partenza imprescindibile per l'attività di qualsiasi autorità giudiziaria, ancor di più se la sua decisione può incidere su diritti fondamentali come quelli del minore ai suoi legami familiari, essenziali per lo sviluppo della sua personalità e sulle sue libertà inviolabili".
Ciò in quanto "solo condizionamenti accertabili su un piano scientifico a partire da comportamenti concretamente posti in essere, possono costituire la ragione per confinare nell'irrilevante giuridico la volontà chiaramente e consapevolmente espressa dal minore, che il diritto vivente vuole al centro di ogni decisione che lo riguardi".

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