Data: 09/04/2021 19:00:00 - Autore: Marino Maglietta

La procura della Cassazione sull'alienazione parentale

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Sul problema del rifiuto di un figlio di incontrare uno dei genitori, dibattuto da lungo tempo, è tornata recentemente la Procura generale della Cassazione, mentre è pure giunta pressoché in contemporanea la risposta del ministro Speranza (datata 29 maggio 2020) ad una interrogazione del 2019, che tuttavia si è espresso in forma problematica, senza prendere una vera posizione.

Il primo documento (emesso nella udienza camerale del 15 marzo 2021, procedimento n. 36260/19) accoglie un reclamo avverso la sentenza della Corte d'Appello di Roma n.507/2019, che aveva parzialmente riformato un decreto del Tribunale per i minorenni di Roma, mantenendo l'affidamento di un minore al servizio sociale, ma collocandolo in casa famiglia in forma residenziale e non solo diurna.

Tuttavia, analizzandolo si osserva anzitutto quanto sia strettamente legato alla fattispecie, rispetto alla quale le conclusioni appaiono senz'altro congrue e perfettamente rispettose della naturale tendenza del diritto all'equità. Non così, tuttavia, sotto il profilo generale e astratto. Le considerazioni di quel tipo, infatti, possono essere divise in due categorie: alcune del tutto convincenti - che al limite possono apparire banali - e altre che, viceversa, lasciano perplessi.

Valutazioni condivisibili

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All'interno della prima categoria, che per ovvi motivi verrà qui trattata velocemente, si pongono affermazioni come quella che, se un genitore segnala al giudice l'allontanamento di un figlio da sé attribuendone la ragione all'altro, il magistrato è tenuto ad accertare la veridicità dei fatti riferiti prima di emettere qualsiasi provvedimento. Allo stesso modo, non è certamente contestabile che, se il rifiuto del figlio viene attribuito alle manipolazioni dell'altro, l'onere della prova, secondo i più generali principi del diritto, spetta all'accusa. Nondimeno è pacifico che l'esigenza di garantire la sicurezza del figlio in situazioni in cui questa è messa in pericolo dalla violenza altrui, debba essere anteposta al diritto alla bigenitorialità. E, poiché nel caso di specie appariva assodato che esistessero, appunto, condizioni di minaccia, sotto il profilo sostanziale la decisione appare assolutamente corretta. Allo stesso modo, nulla quaestio che al momento di assumere decisioni rilevanti nei confronti di un figlio questi debba essere sentito; ovvero che il rifiuto di sentirlo debba essere motivato.

Considerazioni che lasciano perplessi

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Irrilevanza delle condotte alienanti - Esistono, tuttavia, altri aspetti che suscitano non pochi dubbi e che devono essere inseriti nella seconda categoria sopra citata. La Procura, ad esempio, aderisce a precedenti affermazioni come quella (Cass. 7041/2013) che la condotta supposta alienante della madre può essere stralciata dal generale benessere del figlio ai fini della sua collocazione presso di lei, come se si trattasse di aspetti di per sé non decisivi, ma autonomi e indipendenti, ciascuno dei quali può esistere a prescindere dall'altro. Sembra più convincente pensare che la capacità di favorire l'accesso del figlio all'altro genitore ("gatekeeping") rappresenta una fondamentale e irrinunciabile qualità genitoriale. Non a caso a livello internazionale ai fini della custodia prevalente (laddove prevista) si privilegia il genitore che favorisce l'accesso all'altro. Non a caso nell'applicazione dell'art. 388 c.p. si ritiene preciso dovere di ciascuno dei genitori agevolare i contatti con l'altro e si sanziona il comportamento opposto. E per questa via si giunge alle conclusioni già enunciate nel "Documento psicoforense sugli ostacoli al diritto alla bigenitorialità e sul loro superamento", a suo tempo elaborato e sottoscritto da un ampio gruppo di eminenti psicologi e neuropsichiatri infantili.

"Maternal preference" - Ugualmente, e per duplice motivo, non appaiono condivisibili le ragioni che la Suprema Corte invoca per prendere le distanze dalla decisione della Corte di Appello: "Dunque, la decisione impugnata viola non tanto il principio di bigenitorialità, ma il diritto del fanciullo a mantenere la continuità affettiva e di cura con la madre, oltre a violare il suo diritto alla conservazione all'habitat domestico, "da intendersi come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare", che per giurisprudenza costante deve essere protetto in quanto luogo che maggiormente favorisce l'armonico sviluppo psico-fisico del minore (ex multis Cass.32231/18)". Ancora una volta sembra mancare una riflessione autonoma, generata ex novo, per ancorarsi ai precedenti orientamenti. Il diritto del fanciullo alla descritta continuità presso la madre, difatti, non ha valenza assoluta, ma è subordinato all'assenza delle circostanze che ai sensi dell'art. 337 quater comma I c.c. porterebbero a una esclusione della medesima dall'affidamento: cioè alla inconsistenza della tesi accolta dalle corti di merito, che quindi deve essere dimostrata per altra via (come in effetti avviene, il padre viene rifiutato a causa dei suoi comportamenti violenti), ma non è di per sé illogica. D'altra parte, neppure si comprende la distinzione tra la violazione del diritto alla bigenitorialità e la perdita della continuità della presenza materna. Non lo si afferma esplicitamente, ma è come se si sostenesse che la marginalizzazione di un padre è ammissibile e quella di una madre no.

La conservazione dell'habitat - Allo stesso modo, il principio della conservazione dell'habitat può essere ritenuto obbligatoriamente associato all'interesse dei figli solo se non si fa attenzione alla esatta formulazione dell'art. 337 sexies c.c., secondo la quale non viene attribuito alcun vantaggio per i figli nel permanere nella casa familiare e neppure viene collegata l'assegnazione della casa familiare alla presenza dei figli. Si dice solamente che quando si assegna quella abitazione si deve guardare se quella scelta è conforme oppure o no all'interesse dei figli, valutato a partire da zero, ossia tenendo conto di tutte le possibili variabili. In altre parole, non si esclude affatto che, nell'ipotesi di frequentazione asimmetrica, la prevalente permanenza nella casa familiare possa non corrispondere all'interesse dei figli

Alienazione e volontà del figlio minorenne - Neppure convince la serie di argomenti a sostegno della tesi che la manipolazione non è apprezzabile in sede giuridica, perché non poggia su prove, su comportamenti oggettivi e verificabili (invocando la incostituzionalità del reato di plagio). In realtà, viceversa, se ciò bastasse, non si potrebbe perseguire alcuna forma di interazione negativa non materiale (come gli atti persecutori di tipo psicologico, quasi sempre soggettivi e non quantificabili), aprendo straordinarie ma inopportune possibilità, ad es., ai partner maltrattanti.

Strettamente collegata al tema della alienazione è la parte dell'analisi che concerne la mancata adesione alla volontà espressa dal figlio minorenne. Anzitutto si avverte una sorta di salto logico nel momento in cui dal principio di diritto espresso da Cass. 16410/2020, secondo cui "costituisce violazione (in tal limitato senso) del principio del contraddittorio e dei diritti del minore il mancato ascolto che non sia sorretto da un'espressa motivazione sull'assenza di discernimento" si deduce che "il giudice è tenuto a motivare adeguatamente le ragioni per le quali ritiene di adottare un provvedimento contrario alla volontà chiara e reiterata manifestata dal minore capace di discernimento." Una simile affermazione, infatti, comporta che un figlio dotato di discernimento sia esentato dal fornire ragionevole motivazione alle sue scelte, quali che siano: basta che le enunci in modo fermo e chiaro. Ora, a parte che nessuna convenzione o legge prevede che si debba eseguire pedissequamente la volontà espressa dal soggetto minorenne, ma solo il suo diritto ad "essere consultato ed esprimere la propria opinione", pare opportuno non dimenticare le conseguenze della tesi espressa, ove accolta e messa in pratica:

a) l'ascolto diventerebbe, in generale, strumento perché il minore possa imporre la sua volontà (valenza deliberativa) virtualmente su "ogni" questione che lo riguardi, dai cambiamenti di residenza all'assegnazione della casa familiare, ad esempio:

b) si dovrebbe concedere analogo diritto al figlio di non separati (artt. 315 bis e 316 c.c.);

c) si dovrebbe ammettere che il figlio possa rifiutare uno qualsiasi dei genitori, ovvero anche il "collocatario": il che avrebbe anche dei vantaggi (ad es. quello di riequilibrare diritti e doveri dei genitori, secondo legge e Costituzione), ma sicuramente ad una tuttora ampia parte degli operatori del diritto non farebbe piacere.

Il principio di diritto

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Di particolare interesse è l'enunciazione finale, che sembra voler chiudere il discorso con una sorta di lapidario principio di diritto:

"Solo condizionamenti accertabili su un piano scientifico a partire da comportamenti concretamente posti in essere, possono costituire la ragione per confinare nell'irrilevante giuridico la volontà chiaramente e consapevolmente espressa dal minore, che il diritto vivente vuole al centro di ogni decisione che lo riguardi." Quindi, siccome la scienza non avrebbe accolto l'alienazione, il rifiuto di un genitore deve essere ammesso anche se il genitore rifiutato sia perfettamente "pulito".

Tuttavia, le perplessità sul punto non sono lievi. Il rifiuto del figlio dovrebbe essere preso comunque in serissima considerazione, quale espressione di un profondo malessere, quale che ne sia la matrice: un aspetto che sfugge alla Procura, che sembra voler sottintendere che, ove si escludano abusi da parte del genitore rifiutato, esistono solo rifiuti sani e fisiologici: tutti assolti. La prevalente opinione della scienza è invece che il rifiuto di un genitore non è mai irrilevante, né psicologicamente né giuridicamente: nell'ipotesi che negativi condizionamenti siano stati comprovati oltre ogni ragionevole dubbio, è doveroso intervenire con una pesante sanzione a carico dei comportamenti del genitore alienante. Ma è un sottocaso della cui irrealtà l'analista è talmente convinto che neppure lo prende in considerazione.

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