Data: 09/05/2021 13:00:00 - Autore: Luisa Claudia Tessore

I "tutori" delle donne

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Conosciuta anche come Legge Sacchi, (Ettore Sacchi, avvocato e politico d'idee progressiste e leader del Partito Radicale Italiano) abrogò l'istituto dell'autorizzazione maritale per le donne sposate, superando, seppur per alcuni aspetti, il principio di origine romana dell'infirmitas sexus, vero e proprio "diritto romano", che per primo declinò in regole tale concetto e di cui ne costituì una traduzione lo strumento giuridico dell'autorizzazione maritale.

Nell'antica Roma le donne erano infatti soggette a diverse limitazioni: oggetto di una disciplina giuridica speciale, basata, come gran parte delle leggi, sui mores, ovvero le consuetudini e le usanze dei padri.

Era considerato necessario farle guidare, per il loro bene, dall'autorità di tutori maschi, "naturalmente" liberi dall'infirmitas sexus, basandosi sulla considerazione che si lasciassero ingannare dalla loro leggerezza d'animo.

Scriveva Cicerone nel 63 a.C.: "Mulieres omnis propter infirmitatem consili maiores in tutorum potestatem esse voluerunt" (Gli antenati vollero che le donne stessero nel controllo dei tutori per la debolezza di ogni idea).

L'istituto dell'autorizzazione maritale

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Con l'entrata in vigore del Code Napoléon, il 21 marzo 1804, l'istituto entrò a far parte dell'ordinamento giuridico ufficiale. Con la disfatta di Napoleone a Waterloo nel 1815, venne ripreso dal legislatore italiano ed inserito tra le norme del Codice Civile del 1865, (il cosiddetto Codice Pisanelli) che ricalcava il modello del codice sabaudo del 1837 e, a sua volta, come sopra esposto, quello napoleonico del 1804.

Veniva così ribadita la condizione di inferiorità della donna rispetto all'uomo nel sistema giuridico del nuovo Regno d'Italia.

Gli articoli del Codice inerenti a tale provvedimento erano il 134, 135, 136 e 137. Così recitava l'art. 134: "La moglie non può donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, costituirsi sicurtà, né transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti, senza l'autorizzazione del marito".

L'unica libertà che una donna poteva esercitare era quella di scegliere o meno di contrarre matrimonio. Tali vincoli non esistevano per le donne nubili e per le vedove. Parimenti era stabilito che la patria potestas sui figli fosse esercitata unicamente dal padre di famiglia (1)

La vicenda di Lidia Poët

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Superati gli esami per diventare procuratore legale, chiese di entrare nell'Ordine degli Avvocati di Torino. Nonostante la sua richiesta avesse suscitato ampie polemiche, non sussistendo un divieto specifico, fu accolta a maggioranza: Lidia Poët divenne la prima donna ad entrare nell'Ordine degli Avvocati, in Italia, il 9 agosto 1883.

A seguito della denuncia del procuratore generale alla Corte d'appello di Torino, che ribadì il divieto, per legge, per le donne di entrare nell'ordine, l'11 novembre 1883 la Corte di Appello accolse la richiesta del procuratore e, nonostante Lidia Poët avesse presentato un ricorso alla Corte di Cassazione, quest'ultima confermò la decisione.

Non potendo esercitare con pieno titolo la sua professione, Lidia Poët, in collaborazione con il fratello Enrico, si dedicò alla difesa dei diritti dei minori, degli emarginati e delle donne. Sostenitrice del suffragio femminile, non si sposò e non ebbe figli.

Grazie alla legge Sacchi, Lidia Poët, nel 1920, all'età di 65 anni, entrò nell'Ordine, divenendo ufficialmente avvocata.

La legge Sacchi

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Già prima del primo conflitto mondiale si era cominciato a discutere di riforme circa la condizione giuridica femminile. Furono avanzate due proposte di legge riguardanti l'abolizione dell'autorizzazione maritale: la prima, presentata da Carlo Gallini nel 1910 e la seconda da Vittorio Scialoja nel 1912. A queste si aggiunse quella di Amedeo Sandrini nel 1916.

Gli anni del conflitto avevano causato un'inversione dei ruoli tradizionali, sensibilizzando di conseguenza la società maschile: gli uomini al fronte e le donne in patria a ricoprire posizioni lavorative e di guida della famiglia, in precedenza appannaggio totalmente degli uomini.

Al progetto di Sandrini, che non ebbe seguito, seguì una proposta più ampia, presentata appunto da Ettore Sacchi.

Il 7 marzo 1919 ebbe inizio la discussione alla Camera: ne seguì un ampliamento del contenuto; non solo la possibilità per le donne di esercitare funzioni tutelari ma anche l'accesso alle professioni ed ai pubblici impieghi, tranne quelli implicanti poteri giurisdizionali. Tutti i deputati si espressero a favore ed il 17 luglio la legge venne approvata, firmata dal re Vittorio Emanuele III, controfirmata dal Guardasigilli Ludovico Mortara e pubblicata in Gazzetta Ufficiale due giorni dopo (2).

E' significativo riportare alcuni degli articoli della Legge.

L'articolo 1 abrogava l'articolo 134 del codice civile, in corpo di articolo già citato, secondo cui "La moglie non può donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, costituirsi sicurtà, né transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti senza l'autorizzazione del marito. Il marito può con atto pubblico dare alla moglie l'autorizzazione in genere o per alcuni dei detti atti, salvo il diritto di revocarla".

L'articolo 2 sopprimeva il consenso maritale per l'esercizio dell'attività di commerciante da parte della moglie; l'articolo 3 abrogava il capo II del titolo IV del codice di procedura civile, che disciplinava l'autorizzazione alla donna maritata; l'articolo 4 ammetteva le donne al ruolo di tutrici; l'articolo 5 annullava il diritto di opporsi da parte del marito agli atti posti in essere dalla moglie; l'articolo 6 sopprimeva il divieto per le donne di esercitare le funzioni di arbitro.

Cardine è l'articolo 7 che riguarda l'accesso delle donne alle professioni: "Le donne sono ammesse a pari titolo degli uomini a esercitare tutte le professioni e a coprire tutti gli impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri giurisdizionali o l'esercizio di diritti e potestà politiche o che attengono alla difesa militare dello Stato".

Chiari erano tuttavia i limiti all'accesso delle donne alle professioni, ancora escluse dagli impieghi pubblici più importanti e strategici, quali la magistratura e l'esercito, e negate nell'esercizio di diritti e potestà politiche.[3]

Dalla legge Sacchi alla legge 66/1963: le prime donne magistrato

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Nel progetto della legge Sacchi vi era anche l'estensione del diritto di voto femminile.

Tuttavia, nonostante l'approvazione delle Camere alla legge sul suffragio universale, queste vennero sciolte prima che anche il Senato potesse approvare la legge ed il diritto di voto per le donne rimase sepolto per tutti gli anni del regime fascista.

Solo nel 1946 venne loro concesso il diritto di voto; in Gran Bretagna il medesimo traguardo era stato raggiunto nel marzo del 1917 e negli Stati Uniti nel 1920 (sic!)

Era poi il 1960, quando la Corte costituzionale dichiarò illegittimo l'articolo 7 della legge Sacchi, in contrasto con gli articoli della Costituzione che sanciscono l'eguaglianza di fronte alla legge (articolo 3) e l'accesso agli uffici pubblici ed alle cariche elettive anche per le donne (articolo 51).

La Legge Sacchi venne infine abrogata nel 1963 dalla legge n. 66, che aprì le porte per le donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura, nei vari ruoli, senza limiti di mansioni e di carriera.

Da ricordare la data del 5 aprile 1965: in servizio le prime donne magistrato.

Il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne, bandito il 3 maggio 1963, fu vinto da otto donne, entrate in servizio il 5 aprile 1965: Letizia De Martino, Ada Lepore, Maria Gabriella Luccioli, Graziana Calcagno Pini, Raffaella D'Antonio, Annunziata Izzo, Giulia De Marco e Emilia Capelli.

Note bibliografiche

(1) Donne&Diritti – Osservatorio di storiografia giuridica

(2) Legge Sacchi

(3) La capacità giuridica della donna: dopo la Legge 17 Luglio 1919 n. 1176 - Erberto Guida - Rivista Internazionale di Scienze Sociali e Discipline Ausiliarie - Vol. 86, Fasc. 333/334 (Settembre-Ottobre 1920), pp. 11-42


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