Data: 11/05/2021 22:00:00 - Autore: Lucia Izzo

Danno tanatologico: la perdita della vita è risarcibile?

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La perdita della vita può determinare un danno "ex se", risarcibile in caso di morte cagionata da un illecito? La risposta non è semplice e nel tempo dottrina e giurisprudenza particolarmente autorevoli si sono a lungo interrogate sulla possibilità di risarcimento del c.d. danno tanatologico, quello direttamente collegato alla perdita del bene vita.

In questo dibattito, ricco di contrasti, è emersa un'opinione maggioritaria espressa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. sentenza n. 15350/2015) che hanno negato tale possibilità in quanto, in materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente sarebbe costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente. Di conseguenza è stata esclusa la risarcibilità iure haereditatis di tale pregiudizio.

In particolare, precisa il Supremo Consesso nomofilattico, ciò si verifica nel caso in cui il decesso avvenga "immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali", in ragione (nel primo caso) dell'assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero (nel secondo) della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo.

Diversa, invece, è la conclusione qualora la persona poi deceduta abbia avuto una lucida cosciente percezione della sua condizione e dunque si sia realizzata una sofferenza derivante dalla cosciente attesa della morte nel tempo della permanenza in vita a seguito delle lesioni.

Danno terminale: le due componenti del danno morale e biologico

Nel dettaglio, la più recente giurisprudenza ritiene che un "apprezzabile lasso di tempo" intercorso tra la lesione e la morte possa giustificare il riconoscimento, in favore del danneggiato, del c.d. "danno biologico terminale", cioè il danno biologico "strictu sensu" (ovvero danno al bene salute), al quale, nell'unitarietà del genus del danno non patrimoniale, può aggiungersi anche un danno morale peculiare improntato alla fattispecie, definito "danno morale terminale" (e noto anche come danno da lucida agonia o danno catastrofale o catastrofico).
Se nel tempo che si dispiega tra la lesione e il decesso la persona si trovi in una condizione di "lucidità agonica", essendo in grado di percepire la sua situazione e in particolare l'imminenza della morte, si verifica dunque un "danno da percezione" che si concretizza sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica (agonia) derivante dall'avvertita imminenza dell'exitus (cfr. Cass. n. 26727/2018).
Questo approdo è stato recentemente ribadito anche dalla terza sezione civile della Corte di Cassazione, nell'ordinanza n. 11719/2021 (qui sotto allegata) chiamata a pronunciarsi sulla richiesta dei parenti di un uomo deceduto diverse ore dopo essere stato vittima di un incidente stradale.

Nel dettaglio, la causa della morte era individuata dai CTU nello stato di shock emorragico per rottura della milza, sottolineando la grave carenza amministrativa dell'ospedale che non aveva potuto eseguire l'esame ecografico, pur disponendo della strumentazione necessaria, per la mancanza di un medico reperibile in grado di provvedere.

Presupposti per il risarcimento del danno terminale

In Cassazione, i parenti dell'uomo hanno denunciato il mancato riconoscimento del danno terminale nonostante l'accertato periodo (sette ore) trascorso dal paziente in lucida agonia, atteso che la vittima aveva patito indicibili sofferenze tanto sotto il profilo fisico quanto sotto quello morale e psichico per avere acquisito progressiva consapevolezza della propria morte imminente.
Anche in questa occasione la Corte ribadisce la distinzione tra danno morale terminale e danno biologico terminale la cui risarcibilità, secondo la Cassazione, è però legata a una serie di parametri con diversa considerazione del fattore "tempo".
In particolare, il danno morale terminale, anche noto come "danno da lucida agonia" o "danno catastrofale", viene descritto come il pregiudizio subito dalla vittima in ragione della sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l'ineluttabile approssimarsi della propria fine. Questo danno da lucida agonia si ritiene risarcibile "a prescindere dall'apprezzabilità dell'intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e il decesso, rilevando soltanto l'integrità della sofferenza medesima".
Diverso, invece, il discorso per quanto riguarda il danno biologico terminale, pregiudizio alla salute che, anche se temporaneo, è massimo nella sua entità e intensità, e sussiste, per il tempo della permanenza in vita, a prescindere dalla percezione cosciente della gravissima lesione dell'integrità personale della vittima nella fase terminale della stessa. Questo richiede, ai fini della risarcibilità, che tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo.

Danno da lucida agonia: quando è risarcibile?

Nel caso di specie, la Corte territoriale ha escluso la ricorrenza del danno biologico in ragione del breve lasso di tempo in cui la vittima era sopravvissuta all'evento di danno, ma non ha preso in considerazione il danno da lucida agonia, la cui ricorrenza prescinde dalla durata della sopravvivenza in vita, ed è legato unicamente alla consapevole attesa della morte imminente ed inevitabile da parte della vittima.
Ai fini della ricorrenza di tale voce di danno, che è pur sempre un danno conseguenza, la Corte ritiene necessario si provveda "alla dimostrazione dell'an, che presuppone la prova della coerente e lucida percezione dell'ineluttabilità della propria fine nello spatium temporis tra la lesione e la morte, dovendosi
escludere che su di esso incida la breve durata della lucida consapevolezza dell'approssimarsi della propria morte". Nel caso in esame, la lucidità del paziente si è manifestata inequivocamente, anche a prescindere, quindi, dal fatto che la sopravvivenza sia stato molto breve.
Il giudice a quo ha dunque errato nell'escludere il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale rappresentato dall'agonia del paziente, come diritto insorto in capo a quest'ultimo quando era lucido e consapevole e trasmesso iure hereditatis.

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