Data: 10/05/2021 06:00:00 - Autore: Annamaria Villafrate

Lavoratrice risarcita per condotte discriminatorie

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Da risarcire per condotta discriminatoria messa in atto da una collega, la dipendente che, con discorsi "persuasivi" viene "invitata" a non rientrare al lavoro dopo la maternità e a non creare troppo problemi all'azienda a causa dei figli. Colpevole però non è solo la collega, ma anche l'azienda, responsabile evidentemente del clima che ha legittimato tale condotta discriminatoria. Questa la decisione contenuta nell'ordinanza n. 11113/2021 della Cassazione (sotto allegata). Vediamo perché.

La vicenda processuale

Riformando la sentenza di primo grado la Corte di Appello accoglie la domanda di una lavoratrice nei confronti della S.r.l datrice e di una sua superiore per atti discriminatori commessi nei suoi confronti nei mesi di gennaio e giungo 2010 e condanna le parti convenute in solido al pagamento dei danni per l'importo di 10.000 euro oltre interessi legali fino al saldo.

La Corte ha infatti ritenuto fondata la richiesta risarcitoria della lavoratrice alla luce della condotta discriminatoria tenuta nei suoi riguardi dalla collega e dall'azienda, in violazione dell'art. 38 del dlgs n. 198/2006 che contiene il "Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell'articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246."

Azienda responsabile per la condotta imprevedibile della dipendente?

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La società datrice però, soccombente nel giudizio di appello, ricorre in Cassazione sollevando i seguenti motivi di doglianza:

  1. con il primo fa presente che la diretta superiore gerarchica della dipendente non coincide con quella che si è relazionata con la lavoratrice, contestando comunque la qualifica della condotta come atto discriminatorio trattandosi piuttosto di un mero alterco tra colleghe;
  2. con il secondo rileva come la condotta contestata non sia qualificabile come discriminatoria;
  3. con il terzo infine lamenta la contestazione nei suoi riguardi per condotta discriminatoria visto che la condotta della dipendente ritenuta responsabile non poteva essere evitata perché del tutto imprevedibile e istantanea.

Discriminatorio persuadere la lavoratrice a non rientrare dopo la maternità

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La Corte di Cassazione, dopo aver analizzato tutti i motivi del ricorso, tra loro strettamente connessi, rigetta il ricorso condannando la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità per le seguenti ragioni.

Il percorso argomentativo seguito dalla Corte d'Appello per gli Ermellini è corretto sia dal punto di vista logico che giuridico.

Per la Suprema Corte la società datrice deve ritenersi responsabile della condotta della dipendente tenuta nei confronti della lavoratrice a causa del ruolo ricoperto dalla prima all'interno della società, in quanto soggetto che "a prescindere dalla formale collocazione gerarchica, era autorizzata ad esprimere per conto della Società datrice posizioni in ordine al rientro della (…) dalla maternità, del tenore palesemente discriminatorio, al di là del disprezzo personale e del linguaggio da trivio con cui erano espresse, delle posizioni assunte, del riflettere le stesse un atteggiamento alla cui assunzione (….) evidentemente si sentiva autorizzata o del quale poteva essere addirittura investita, ove fosse stato affidato a lei il compito di sospingere verso una decisione "spontanea" che la Società non avrebbe potuto unilateralmente assumere, della conseguente sussistenza di un clima aziendale a ciò favorevole, del mancato intervento in prevenzione della Società datrice su tale clima cui si correlano i c.d. episodi "istantanei" e così della riferibilità ad essa del pregiudizio morale subito dalla (...) per effetto dei colloqui "persuasivi" della (...) e dell'obbligo solidale di risarcire il danno a carico della stessa accertato."

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