Data: 30/07/2021 12:00:00 - Autore: Law In Action - di P. Storani
Amarcord: la legge sul cyberbullismo era appena uscita e mi ritrovai convocato presso un ateneo di Genova gremito di scolaresche liguri a parlare della nuova normativa a un pubblico attentissimo. Ora sul medesimo tema si riforma la coppia magica che torna sulle colonne di Law In Action, la nostra rubrichetta di servizio: il colto giurista Prof. Avv. Leonardo Ercoli e il giornalista di razza Dott. Emilio Orlando.
Buona lettura!

"Minori e cyberbullismo"


(del Prof. Avv. Leonardo Ercoli e del Dott. Emilio Orlando Giornalista e Scrittore)

0) INTRODUZIONE

1) L'EVOLUZIONE TECNOLOGICA E IL CYBERBULLISMO: CENNI INTRODUTTIVI;

2) LA LEGGE DI PREVENZIONE E CONTRASTO AL FENOMENO DEL CYBERBULLISMO: LEGGE 29 MAGGIO 2017, N. 71;

3) BULLISMO E CYBERBULLISMO: DEFINIZIONI A CONFRONTO;

4) GLI OBIETTIVI PREVENTIVI DELLA LEGGE SUL BULLISMO IN INTERNET: ASPETTI PENALISTICI E REATI CONFIGURABILI IN GENERALE;

4.1) (SEGUE) IL REATO DI INGIURIA E DIFFAMAZIONE;

4.2) (SEGUE) IL REATO DI MINACCIA;

4.3) (SEGUE) L'ILLECITO TRATTAMENTO DEI DATI;

5) ULTERIORI ASPETTI PENALMENTE RILEVANTI DEL CYBERBULLISMO;

6) I NUOVI STRUMENTI PREVENTIVI DELLA LEGGE 71/2017 E IL RUOLO DELLA SCUOLA;

7) CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE.


***


0) INTRODUZIONE

Con l'avvento della "new e della gig economy" che hanno introdotto nuove forme di comunicazione e di "mondi" virtuali paralleli con i social network fatti di relazioni e realtà che ancora sfuggono ai radar degli apparati normativi, anche i dati personali sono divenuti una merce di scambio portando alla mercificazione della persona, a sempre più frequenti furti d'identità personale infangamento della reputazione nel web e al cyberbullismo, molto diffuso soprattutto fra i minorenni. Di fronte a quale tipo di vittimizzazione ci troviamo? Quella primaria o quella secondaria? Possiamo affermare che queste forme di criminalità nascenti hanno un impatto psicologico sulle vittime e su chi li circonda di proporzioni devastanti, a fronte di una scarsa pervasività che le attività d'indagine riescono ad ottenere in questi ambiti ancora poco conosciuti. Nonostante si invochi continuamente il diritto all'oblio anche dopo le sentenze a Sezioni Unite della Suprema Corte, i profili costituzionali del cyber bullismo e il diritto di essere dimenticati ai tempi della trasparenza amministrativa rimane ancora remoto e la tutela delle vittime ancora un miraggio. Dal punto di vista delle indagini invece la ricerca tecnologica è andata avanti con l'introduzione di sistemi che analizzano le profilazioni estrapolandole dalle cosiddette fonti aperte, come quello perfezionato da Almawave, società del gruppo Almaviva, Il centro di Ricerca per l'Analisi delle Informazioni Multimediali(CRAIM) effettua analisi delle informazioni provenienti da fonti aperte sul web e sui canali televisivi, o Open Source INTELLIGENCE - OSINT (analisi di video, audio e testi) con software innovativi progettati per le esigenze delle indagini, per la prevenzione del terrorismo ma anche per inchieste di criminalità organizzata


1) L'EVOLUZIONE TECNOLOGICA E IL CYBERBULLISMO: CENNI INTRODUTTIVI


L'avvento delle nuove tecnologie all'interno della nostra società ha profondamente mutato non solo il modo di vivere, ma anche il modo di rapportarsi delle persone; la rivoluzione digitale ha portato con sé potenzialità, innovazioni e facilitazioni nella vita di ciascuno di noi prima inimmaginabili, ma anche inevitabili criticità e rischi connessi al loro utilizzo. E, infatti, il diffuso utilizzo di internet che contraddistingue le moderne società non si limita a costituire un mero progresso tecnologico ben potendo, al contrario, rappresentare - soprattutto tra i giovani - un vero e proprio fattore criminogeno. E' noto, infatti, come l'opportunità di agire celandosi dietro lo schermo di un computer piuttosto che di uno smartphone ha senz'altro ampliato il rischio di frodi informatiche, danneggiamenti di dati e programmi nonché intrusioni all'interno dei sistemi informatici spingendo così il legislatore ad intervenire mediante la previsione di reati ad hoc (FERRANTE). In tal senso, tra i fenomeni criminogeni strettamente connessi al progressivo sviluppo tecnologico vi è - per ciò che in tal sede rileva - il cosiddetto cyberbullismo (letteralmente "bullismo in internet") il quale viene normalmente ricollegato alla minore età sia degli autori che delle vittime. Un fenomeno quello del bullismo elettronico che, a causa delle potenzialità comunicative dei social network, ha assunto e continua ad assumere, connotati estremamente preoccupanti soprattutto nelle società occidentali. Invero, l'ultima indagine ISTAT condotta in Italia ha messo in evidenza la diffusione di tali fenomeni rilevando, in particolare, come i numeri in maggior misura elevati di vittime siano rinvenibili nelle zone maggiormente disagiate e come le ragazze presentino percentuali di vittimizzazione prevalenti rispetto ai ragazzi così come i ragazzi stranieri rispetto agli italiani. Circa il 50% degli 11-17enni aderenti all'indagine ha dichiarato di aver subìto episodi offensivi e/o violenti da parte di altri ragazzi o ragazze; il 63,3% dei ragazzi ha, inoltre, dichiarato di essere stato testimone di comportamenti vessatori da parte di alcuni ragazzi verso altri.


Quanto testé esposto spiega il motivo per cui il legislatore italiano abbia avvertito l'esigenza di fronteggiare il fenomeno emanando un'apposita normativa - la legge del 29 maggio 2017, n. 71 - tesa a scongiurare o comunque a prevenire il fenomeno del cyberbullismo mediante l'ausilio di strumenti di natura differente dal diritto penale. In particolare, ciò che rileva è il tentativo avanzato dalla Camera di apportare modifiche all'art. 612-bis c.p. trasformando una già prevista circostanza ad effetto comune in una circostanza ad effetto speciale; tentativo, questo, successivamente sfumato a causa dell'opposizione da parte del Senato il quale, palesandosi contrario all'introduzione di nuove fattispecie delittuose o comunque di qualsivoglia strumento di natura penalistica, si è limitato a dare atto, all'interno degli artt. 1, co. 2, e 7 della succitata legge, di come il fenomeno del bullismo cibernetico possa essere fatto rientrare in via giurisprudenziale all'interno di una serie di fattispecie di reato già previste dal codice penale. In tal senso, il senatore Palermo, in sede di discussione finale, ha rappresentato come la materia penale intesa in senso ampio sia da sempre ispirata al raggiungimento di un difficile equilibrio tra le esigenze repressive e quelle educative, e come queste ultime, raggiungibili anche con strumenti differenti dal diritto penale, siano certamente prevalenti rispetto alle prime nel caso del fenomeno in esame; lo stesso ha, infatti, sottolineato che «Insistere sulla repressione (anche se spesso ci troviamo dinanzi a casi assolutamente drammatici e disgustosi che spingerebbero a pensare in prima battuta alla necessità di una repressione penale), avrebbe poco senso, sarebbe poco efficace e andrebbe a intasare ulteriormente il sistema giudiziario con una mole di fattispecie potenzialmente infinita. E ancora non sappiamo quante possano essere le fattispecie che evolvono con l'evolvere dei mezzi di comunicazione moderna. Sostanzialmente ciò non porterebbe al risultato sperato» (seduta Senato della Repubblica del 26 gennaio 2017 in www.senato.it). In piena attuazione al principio di sussidiarietà, il legislatore italiano ha, dunque, fatto propria la concezione del diritto penale quale "extrema ratio", recependo l'argomento spiccatamente strumentalista per cui al fine di garantire l'efficienza del sistema penale è indispensabile un uso sinergico ed una equilibrata gradualità di intervento dei diversi strumenti giuridici, dal momento che all'aumentare dei reati corrisponde una minore possibilità di accertare e sanzionare ciascuno di essi e, dunque, la minore efficacia preventiva del sistema penale (COCCO). In altri termini, sempre ad avviso del legislatore, parrebbe essere controproducente procedere all'introduzione di nuove fattispecie penali allorquando quelle già esistenti siano già di per sé sufficienti ad assicurare i medesimi risultati, ritenendo, peraltro, utopico considerare che il diritto penale possa, da solo, rimediare all'assenza di controlli preventivi che invece debbono essere garantiti da altri rami dell'ordinamento giuridico (ROMANO).


2) LA LEGGE DI PREVENZIONE E CONTRASTO AL FENOMENO DEL CYBERBULLISMO: LEGGE 29 MAGGIO 2017, N. 71


Come anticipato nel paragrafo che precede, la legge n. 71/2017 ha rappresentato per il nostro Paese il primo strumento normativo di natura preventiva all'avvenimento del cyberbullismo. La predisposizione di un disegno di legge prima e di una vera e propria legge poi ha costituito, dunque, una risposta necessaria alle incessanti richieste di intervento in tale ambito, dovute soprattutto al dilagare di un fenomeno come quello del bullismo perpetrato attraverso strumenti di natura telematica. Invero, la gravità dei fatti di cronaca sempre più comuni e i dati offerti dalla polizia postale nonché la spinta proveniente dalle direttive emanate in ambito europeo sul tema, hanno costretto il legislatore a potenziare gli strumenti normativi volti alla tutela e alla prevenzione del fenomeno in questione mediante una serie di proposte legislative, ultima delle quali è rappresentata dal disegno di legge 1261.B recante "Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo" approvato il 20 maggio 2015 dal Senato della Repubblica.

Prima della sua approvazione alla Camera, il 20 settembre 2016, numerosi sono stati gli emendamenti volti ad ampliare l'ambito applicativo della legge anche ai fenomeni di bullismo in generale, sì da consentire l'acceso alla procedura di oscuramento, consistenti nella rimozione e nel blocco dei contenuti ritenuti offensivi non solo per i minori ma per chiunque, nonché emendamenti tesi a irrigidire un impianto sanzionatorio di natura penalistica. Ciò nonostante, il Senato ha sempre mantenuto l'impianto originario e, solo in seconda lettura, ha cancellato gran parte delle modifiche apportate nel passaggio alla Camera, ritenendole modificative della natura della legge, da educativa a repressiva. Il 17 maggio 2017 il disegno di legge è stato approvato in via definitiva dalla Camera, ed una volta promulgata dal Presidente della Repubblica, la legge è entrata in vigore all'interno del nostro ordinamento il 18 giugno 2017. La suddetta legge, quindi, si presenta quale strumento legislativo speciale teso al solo fenomeno del cyberbullismo fra i giovani e fondato su un approccio non già repressivo quanto educativo-preventivo. La conferma di quanto detto, si riviene nell'unica misura sanzionatoria aggiuntiva prevista nei confronti del minore che abbia compiuto atti di cyberbullismo consistente nell'ammonimento, misura questa già prevista per il reato di cui all'art. 612-bis c.p. In altri termini, essa cerca di contrastare il fenomeno adoperando strumenti di natura differente dal diritto penale quali ad esempio la possibilità per la vittima di cyberbullismo, o per il genitore o il soggetto esercente la responsabilità genitoriale sul minore medesimo, di inoltrare al titolare del trattamento dei dati, al gestore del sito internet o del social media, un'istanza finalizzata all'oscuramento, alla rimozione o al blocco dei contenuti specifici rientranti nelle condotte di cyberbullismo (art. 2); e ancora, l'istituzione di un «tavolo tecnico» per la redazione di un piano di azione integrato per la prevenzione del fenomeno (art. 3); l'elaborazione da parte del Ministero dell'istruzione, dell'università e delle ricerca di linee di orientamento per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno in ambito scolastico (art. 4); l'estensione all'autore di atti di cyberbullismo che abbia compiuto quattordici anni della procedura di ammonimento prevista per lo «stalker» (art. 7). Più in particolare, l'articolo 7, accorda la facoltà di accendere alla procedura di ammonimento prevista dalla legge 23 aprile 2009, n. 38 prima della presentazione della denuncia o della querela per «taluno dei reati previsti dagli artt. 594, 595 e 612 c.p.». Giova, tuttavia, evidenziare come, in realtà, la tecnica redazionale adoperata sia pressoché approssimativa sotto due differenti aspetti. La prima incertezza normativa deriva dal riferimento al reato di ingiuria previsto e punito dall'art. 594 c.p. che - come noto - è stato di recente depenalizzato; in secondo luogo, ulteriore aspetto approssimativo, è rappresentato dall'indicazione, estromessa l'ingiuria, di due sole fattispecie criminose ovverosia la diffamazione e la minaccia a fronte di un più ampio novero di fattispecie richiamabili e desumibili dalla definizione di cyberbullismo elaborata dallo stesso legislatore il cui contenuto verrà approfondito nel prosieguo della trattazione. Di talché, senz'altro più idonea appare la formulazione del testo elaborato precedentemente ad opera della Camera, la quale si incentrata sul richiamo ai fatti, non procedibili d'ufficio, indicati nelle definizioni di bullismo e cyberbullismo contenute nell'art. 1. Nella specie, il primo comma dell'art. 7 del testo del disegno di legge in questione elaborato dalla Camera disponeva testualmente: «Per i fatti di cui all'articolo 1, commi 2 e 3, della presente legge che non integrano reati procedibili d'ufficio, fino a quando non è proposta querela, è applicabile la procedura di ammonimento di cui all'articolo 8, commi 1 e 2, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, e successive modificazioni. In caso di minore età dell'ammonito, il questore convoca, unitamente all'interessato, almeno un genitore ovvero la persona esercente la responsabilità genitoriale».


Sulla scorta di quanto testé esposto e considerata la volontà del Senato di circoscrivere il ruolo del diritto penale in tema di prevenzione e repressione del fenomeno in analisi, del tutto incerta si appalesa la scelta di non consentire il ricorso al procedimento di ammonimento per le ulteriori fattispecie penali configurabili e procedibili a querela quali ad esempio gli atti persecutori ex art. 612-bis co.1 e 2 c.p., il reato di interferenze illecite nella vita privata di cui all'art. 615-bis c.p., ed ancora al reato contravvenzionale di molestia o disturbo alle persone ex art. 660 c.p.


3) BULLISMO E CYBERBULLISMO: DEFINIZIONI A CONFRONTO


Al fine di comprendere al meglio la portata del tema in oggetto, giova senz'altro operare talune - seppur sommarie - precisazioni in ordine alla definizione dei fenomeni in commento e, più precisamente, il fenomeno del bullismo e del cyberbullismo.


Sotto un profilo squisitamente generale, il termine bullismo, di derivazione anglosassone, è divenuto di uso comune nella lingua italiana ove viene utilizzato per indicare un comportamento intenzionale e aggressivo che si verifica reiteratamente contro una o più vittime con le quali vi è un reale o percepito squilibrio di potere. Abitualmente esso si manifesta senza provocazione e costituisce una forma di violenza tra pari, una dinamica in cui i bulli, da un lato, agiscono molto spesso per frustrazione, rabbia o per raggiungere un determinato status sociale dominante e le vittime, dall'altro, subiscono passivamente giacché vulnerabili ed incapaci di auto-difendersi. A ben vedere, però, l'aggressione non si estrinseca nella sola aggressione fisica del soggetto vulnerabile ma anche verbale, tanto diretta quanto indiretta. Tra le forme di aggressione verbale diretta vi sono gli insulti e le minacce, mentre tra quelle indirette vi è la diffusione di voci finalizzate al danneggiamento della reputazione altrui e l'esclusione da un gruppo. Le medesime caratteristiche possono riscontrarsi nel fenomeno del cyberbullismo il quale si differenzia dal bullismo tradizionale per una sola particolarità consistente nella sua manifestazione che avviene mediante l'utilizzo della rete internet, in diverse forme e con conseguenze, senz'alto, potenzialmente più gravi. Il fenomeno si riferisce, dunque, a qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d'identità, alterazione, acquisizione e diffusione illecita di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica. Le finalità sono le medesime del bullismo tradizionale, tuttavia nel cyberbullismo il comportamento dannoso assume caratteri di maggior clamore e risulta molto spesso incontenibile, negando alla vittima qualsiasi rifugio o via di fuga (WILLARD). L'art. 1 co.1 e 2 della legge 71/2017 definisce il cyberbullismo come «[...] qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d'identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti on line aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo».


Sul punto, giova altresì precisare come il primo articolo della legge in commento, occupa un ruolo di ingente rilevanza nell'intera disciplina non solo perché offre, come detto, la definizione del fenomeno in esame garantendone così una precisa tutela per il minore sia esso bullo o vittima, ma anche e soprattutto perché, nel suo terzo comma, prevede altresì la definizione di cosa debba intendersi per "gestore del sito internet", a mente del quale «il prestatore di servizi della società dell'informazione, diverso da quelli di cui agli artt. 14,15 e 16 del d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70 che, sulla rete internet, cura la gestione dei contenuti di un sito in cui si possono riscontrare le condotte di cui al co. 2» (CURRELI). E, infatti, la predisposizione, chiara e puntuale, della suddetta definizione rileva soprattutto con riferimento alle imputazioni per diffamazione aggravata e cioè in tutti quei casi in cui il gestore del sito internet viene chiamato a rispondere in concorso nel delitto commesso da terzi (Cfr. Cass. Pen., Sez. V, 14 luglio 2016, n. 54946, in Foro It., 2017, 4, 2, 251).


Alla luce di quanto detto, appare evidente come la definizione offerta dalla legge in commento sia estremamente ampia oltre che dettagliata ma soprattutto ideata per tentare di ricomprendervi tutte le possibili e variegate modalità con le quali possono verificarsi forme di vessazione sul web che - sempre nell'intento del legislatore - devono essere contrastate in tutte le sue manifestazioni, mediante azioni aventi carattere preventivo, espressioni di una strategia di attenzione, tutela ed educazione nei confronti dei minori coinvolti, sia nella posizione di vittima che in quella di responsabili di illeciti. Si tratta di una definizione che, sostanzialmente, ricomprende in sé una sorta di 'catalogo' di reati perpetrabili dal cosiddetto "cyberbullo", che va al di là di quelli specificamente previsti nell'art. 7. Si pensi, a titolo esemplificativo, al ricatto che normalmente è espressione equivalente dell'estorsione; si pensi al generico quanto ampio concetto di "qualsiasi forma di pressione", che ricomprende anche il concetto di minaccia e quello di violenza privata; si pensi al concetto di denigrazione che richiama alla mente il delitto di diffamazione, peraltro indicato espressamente nella stessa elencazione; si pensi, infine, al concetto di "qualunque forma di aggressione", che abbraccia, le percosse e le lesioni lievissime. Tuttavia, come in parte anticipato, è d'uopo precisare come la legge in questione non abbia introdotto una specifica fattispecie incriminatrice preferendo richiamare fattispecie incriminatrici già presenti nel nostro ordinamento che colpiscono solo alcuni dei comportamenti rientranti nel fenomeno in esame. Prima di procedere nel paragrafo che seguirà a richiamare in sintesi le fattispecie di reato più frequentemente coinvolte, giova descrivere, seppur brevemente, in cosa possano consistere questi comportamenti prevaricatori attuati, come recita la legge, "per via telematica". Seguendo la classificazione proposta da uno dei più accreditati studi monografici in materia (WILLARD) si possono distinguere cinque diverse tipologie di condotte: il Flaming ovvero la pubblicazione di messaggi elettronici dal contenuto aggressivo, violento, volgare, denigratorio, tra due o più contendenti, i quali innescano una vera e propria battaglia verbale in un ambiente informatico quali servizi di messaggistica, chat, bacheca di un social network; l'harassment e cioè l'invio di una serie cospicua di messaggi per via informatica (sms, email, chat, social network) dal contenuto volgare, aggressivo, minatorio da parte di uno o più soggetti nei confronti di un individuo. Diversamente del flaming, questo fenomeno è caratterizzato dalla "asimmetria di potere" tra le parti (il bullo, o i bulli, da una parte, la vittima dall'altra) nonché dalla persistenza e dalla reiterazione nel tempo delle condotte aggressive. A questa tipologia di comportamento è riconducibile altresì il cosiddetto "cyberstalking", che si verifica allorquando il persecutore non accetta la decisione da parte della vittima di porre fine ad un rapporto affettivo e persiste nel contattare molestamente quest'ultima mediante canali telematici quali telefonate, email e messaggi. Ulteriore tipologia è rappresentata dal denigration caratterizzato dalla diffusione mediante messaggi social o chat di notizie, fotografie o videoclip, veri o anche alterati concernenti comportamenti o situazioni imbarazzanti che coinvolgono la vittima, con lo scopo di ridicolizzarne l'immagine, offenderne la reputazione o violarne la riservatezza. In tal senso, una forma molto comune di denigration è rappresentata dal cyberbashing o happy slapping, consistente nella videoripresa delle prepotenze e delle prevaricazioni perpetrate dai bulli nei confronti della vittima siano essi percosse, insulti, costringimenti a subire o a porre in essere attività ridicolizzanti (anche a sfondo sessuale) a cui ne segue la pubblicazione per via informatica, sempre al fine di pregiudicare l'immagine della vittima dinanzi ad una platea più ampia. Vi è poi l'impersonation che si verifica nel caso in cui il cyberbullo si impadronisce delle chiavi di accesso ai profili di identità digitale della vittima - clandestinamente o abusando della fiducia mal riposta di quest'ultima - e ne approfitta per creare nocumento o imbarazzo inviando, ad esempio, messaggi o pubblicando contenuti inopportuni, visualizzabili come se provenissero dalla vittima stessa. Infine, ma non importanza, vi è l'outing and trickery consistente nella ricezione o detenzione di dati o immagini "sensibili" della vittima (molto spesso anche di natura sessuale), inviati da quest'ultima o comunque realizzati con il suo consenso a cui segue, anche in tal caso, la pubblicazione, senza il previo consenso della vittima o addirittura contro il suo espresso volere, attraverso canali informatici (chat e social networks), con l'effetto di renderle visibili ad una infinità di utenti.


4) GLI OBIETTIVI PREVENTIVI DELLA LEGGE SUL BULLISMO IN INTERNET: ASPETTI PENALISTICI E REATI CONFIGURABILI IN GENERALE


Come anticipato nei paragrafi che precedono, l'ordinamento penale italiano è sprovvisto di una fattispecie incriminatrice volta a sanzionare in modo specifico il cyberbullismo stante anche l'impossibilità di tipizzare un'unica disposizione capace di ricomprendere in sé l'ampia gamma di comportamenti riconducibili al fenomeno. Il legislatore, dunque, si è limitato - in ottica squisitamente preventiva - ad introdurre con la legge 71/2017 il solo generico riferimento a determinate fattispecie penali previste nel nostro codice penale. Più precisamente, all'interno del testo di legge, così come entrato in vigore, solo l'art. 7 - rubricato "Ammonimento" - indica espressamente alcune delle fattispecie penalmente rilevanti entro cui è possibile sussumere le condotte in cui tipicamente si concretizza il cyberbullismo ed a cui è possibile, fino a quando non sia stata presentata denuncia o querela, applicare la procedura di ammonimento già prevista per il reato di atti persecutori.


Orbene, al fine di offrire una panoramica generale e ragionata delle molteplici fattispecie incriminatrici applicabili alle singole forme di manifestazione del fenomeno in esame, è possibile operare una tripartizione del fenomeno in esame suddistinguendolo in cyberbullismo improprio, proprio e ibrido. Si parla di "cyberbullismo improprio", allorquando si verifichi un episodio di bullismo attuato nella vita reale già di per sé penalmente rilevante che viene documentato da immagini o riprese successivamente diffuse in rete, dando luogo così ad ulteriori profili di rilevanza penale. In secondo luogo, vi è il "cyberbullismo proprio" che si verifica allorquando la condotta vessatoria viene perpetrata ab origine nel mondo digitale, e viene punita frequentemente in modo aggravato rispetto alla omologa condotta, anch'essa penalmente rilevante, realizzabile nel mondo reale - si pensi ad esempio alla diffamazione online - (DE SALVATORE). Infine, il fenomeno del cyberbullismo può, altresì, essere qualificato come "ibrido", giacché connotato da materiale digitale (immagini, video) che documentano un episodio della vita reale, di per sé penalmente irrilevante, che viene immesso in rete, con conseguente assunzione di rilevanza penale della condotta di diffusione non autorizzata del materiale medesimo, in quanto pregiudizievole per la riservatezza della vittima o per l'integrità della sua immagine. Alla luce dell'anzidetta tripartizione è possibile, dunque, procedere nell'esaminare, in primissimo luogo, i reati di ingiuria ex art. 594 c.p., diffamazione ex art. 595 c.p., minaccia ex art. 612 c.p. e trattamento illecito di dati ex art. 167 d.lgs. n. 196/2003.


4.1) (SEGUE) IL REATO DI INGIURIA E DIFFAMAZIONE


Con riferimento ai reati di cui agli artt. 594 e 595 c.p., giova preliminarmente evidenziare come la legge 23 dicembre 1993, n. 547 recante "Modificazioni ed integrazioni alle norme del codice penale e del codice di procedura penale in tema di criminalità informatica", nel prevedere e introdurre una serie di ipotesi illecite relativamente ai cosiddetti reati informatici non ha, tuttavia, previsto specifiche figure di reato con riferimento all'ingiuria e alla diffamazione perpetrate mediante la rete internet. Sicché, la giurisprudenza di legittimità, a partire dagli anni duemila, nell'ottemperare a tale lacuna normativa, è giunta ad affermare che le anzidette fattispecie delittuose ricomprendono anche tutti quei comportamenti lesivi dell'onore e del decoro di una persona che si realizzino attraverso le nuove forme di comunicazione nate grazie alle attuali tecnologie informatiche. In particolare, secondo quanto evidenziato dalla Corte di Cassazione «Il legislatore, pur mostrando di aver preso in considerazione l'esistenza di nuovi strumenti di comunicazione, telematici ed informatici (si veda, ad esempio, l'articolo 623-bis c.p. in tema di reati contro la inviolabilità dei segreti) non ha ritenuto di dover mutuare o integrare la lettera della legge con riferimento a reati


(e, tra questi certamente quelli contro l'onore) la cui condotta consiste nella — o presuppone la — comunicazione dell'agente con terze persone. E tuttavia, che i reati previsti dagli artt. 594 e 595 c.p. possano essere commessi anche per via telematica o informatica, è addirittura intuitivo; basterebbe pensare alla c.d. trasmissione via e-mail, per rendersi conto che è certamente possibile che un agente, inviando a più persone messaggi atti ad offendere un soggetto, realizzi la condotta tipica del delitto di ingiuria (se il destinatario è lo stesso soggetto offeso) o di diffamazione (se i destinatari sono persone diverse). Se invece della comunicazione diretta, l'agente "immette" il messaggio "in rete", l'azione è, ovviamente, altrettanto idonea a ledere il bene giuridico dell'onore» (Cfr. Cass. pen., Sez. V, 17 novembre 2000, n. 4741 in Riv. Pen., 2001, 156). Ebbene, prescindendo dall'ipotesi in cui


il comportamento del cyberbullo integri una condotta ingiuriosa per la quale - a seguito di depenalizzazione in illecito civile - è prevista la sola sanzione pecuniaria civile, appare evidente come, a seconda di come venga estrinsecato la condotta del cyberbullo, è ben possibile che la condotta lesiva dell'onore e del decoro della vittima, integri il differente reato di diffamazione di cui all'art. 595 c.p., il quale - come noto - richiede sotto il profilo oggettivo la sussistenza di tre elementi ovverosia l'assenza della persona offesa, l'offesa all'altrui reputazione e la percezione dell'offesa da parte di più persone (FASOLI). In tal senso, secondo dottrina e giurisprudenza ormai pacifica, l'insussistenza della persona offesa non va intesa in senso rigorosamente fisico-spaziale, ma come impossibilità fisica di percezione dell'addebito diffamatorio (FIANDACA-MUSCO). E' bene, inoltre, puntualizzare, sempre in ordine all'offesa dell'altrui reputazione che la prevalente giurisprudenza qualifica l'offesa non già quale lesione in sé, quanto come eventualità o probabilità che l'utilizzo di parole o atti destinati a ledere l'onore, provochi una effettiva lesione (Cfr. fra tutte Cass. pen., Sez. V, 5 agosto 2015, n. 34178; Cass. pen., Sez. V, 4 dicembre 2013-25 febbraio 2014, n. 9091; Cass. pen., Sez. V, 19 ottobre 2012, n. 5654). Invero, il reato di cui all'art. 595 c.p. si configura quale reato di pericolo per aversi il quale è indispensabile il requisito della comunicazione con più persone occorrendo, altresì, che il soggetto agente renda partecipi dell'epiteto diffamatorio quantomeno due persone, le quali siano state in grado di percepire l'offesa e di comprenderne il significato (MANZINI). Ad ogni buon conto, ciò che rileva in tal sede, è il terzo comma della norma in esame il quale, utilizzando l'espressione "ogni altro mezzo di pubblicità", include anche il mezzo web dal momento che non può disconoscersi come la portata di tale strumento sia particolarmente incisiva e tale da avere una rilevanza molto ampia (BISORI). Di talché, la diffamazione risulta essere inequivocabilmente aggravata ai sensi del co.3 ogni qual volta le espressioni utilizzate non solo si rivelino potenzialmente idonee ad offendere l'altrui reputazione, ma vengano diffuse attraverso un qualsivoglia mezzo di comunicazione, sia esso un social network o uno strumento di messaggistica istantanea, purché visibile e raggiungibile da un numero indeterminato di soggetti. A conferma di quanto detto, la giurisprudenza di legittimità, si è espressa ritenendo, nella specie, che «[…] per quanto specificamente riguarda il reato di diffamazione, è infatti noto che esso si consuma anche se la comunicazione con più persone e/o la percezione da parte di costoro del messaggio non siano contemporanee (alla trasmissione) e contestuali (tra di loro), ben potendo i destinatari trovarsi persino a grande distanza gli uni dagli altri, ovvero dall'agente. Ma, mentre, nel caso, di diffamazione commessa, ad esempio, a mezzo posta, telegramma o, appunto, e-mail, è necessario che l'agente compili e spedisca una serie di messaggi a più destinatari, nel caso in cui egli crei o utilizzi uno spazio web, la comunicazione deve intendersi effettuata potenzialmente erga omnes (sia pure nel ristretto - ma non troppo - ambito di tutti coloro che abbiano gli strumenti, la capacità tecnica e, nel caso di siti a pagamento, la legittimazione, a "connettersi"). Partendo da tale - ovvia - premessa […]» continua la Suprema Corte nella nota sentenza del Duemila - «si giunge agevolmente alla conclusione che, anzi, l'utilizzo di internet integra una delle ipotesi aggravate di cui dell'articolo 595 c.p. (comma 3: "offesa recata ... con qualsiasi altro mezzo di pubblicità"). Anche in questo caso, infatti, con tutta evidenza, la particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio rende l'agente meritevole di un più severo trattamento penale. Né la eventualità che tra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona nei cui confronti vengono formulate le espressioni offensive può indurre a ritenere che, in realtà, venga, in tale maniera, integrato il delitto di ingiuria (magari aggravata ai sensi del comma 4 dell'articolo 594 c.p.), piuttosto che quello di diffamazione. Infatti il mezzo di trasmissione-comunicazione adoperato (appunto internet), certamente consente, in astratto, (anche) al soggetto vilipeso di percepire direttamente l'offesa, ma il messaggio è diretto ad una cerchia talmente vasta di fruitori, che l'addebito lesivo si colloca in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore ed offeso. D'altronde, anche per altri media si verifica la medesima situazione. Un'offesa propagata dai giornali o dalla radio-televisione è sicuramente percepibile anche dal diretto interessato, ma la fattispecie criminosa che, in tal modo, si realizza è, pacificamente, quella ex art. 595 c.p. e non quella ex art. 594 c.p. […]».


Conclusivamente, si legge nel corpus della sentenza in commento, «[…] la diffusività e la pervasività di internet sono solo lontanamente paragonabili a quelle della stampa ovvero delle trasmissioni radio-televisive. Internet è, senza alcun dubbio, un mezzo di comunicazione più "democratico" (chiunque, con costi relativamente contenuti e con un apparato tecnologico modesto, può creare un proprio "sito", ovvero utilizzarne uno altrui). Le informazioni e le immagini immesse "in rete", relative a qualsiasi persona sono fruibili (potenzialmente) in qualsiasi parte del mondo. Ma proprio questo è il nodo che qui interessa sciogliere, dal momento che, in considerazione della caratterizzazione "transnazionale" dello strumento adoperato, può apparire, in un primo momento, problematica la individuazione del luogo in cui deve ritenersi consumato il delitto commesso "a mezzo internet". In realtà, una espressione ingiuriosa, una immagine denigratoria, una valutazione poco lusinghiera inserite in un "sito" web sono soggette ad una diffusione al di fuori di ogni controllo e di ogni ragionevole possibilità di "blocco", se non attraverso i mezzi coercitivi legalmente riservati alla pubblica autorità (e sempre che siano disponibili adeguati strumenti tecnici). Ma, va da sé, le procedure, appunto legali o tecniche, hanno bisogno di tempi lunghi, mentre il messaggio veicolato dal computer si propaga fulmineamente» (Cfr. Cass. pen. Sez. V, 17/11/2000, n. 4741 in Riv. Pen., 2001, 156).


Ebbene, sulla scorta di quanto pacificamente acquisito sotto il profilo giurisprudenziale, appare evidente come nel qual caso in cui il soggetto destinatario delle frasi diffamatorie sia un soggetto minorenne e l'offesa dell'altrui reputazione sia stata perpetrata a mezzo web, ci si trova dinanzi ad una tipica modalità di estrinsecazione del fenomeno del cyberbullismo; dati questi, peraltro, suffragati dalla polizia postale per cui, nel corso del 2013, un terzo delle denunce per cyberbullismo che hanno avuto come vittime minorenni con età compresa tra i 14 e 17 anni, erano relative proprio al reato di diffamazione. In realtà, fino al 2014, la giurisprudenza di merito si è mostrata tutt'altro che pacifica nel ritenere le comunicazioni nell'ambito dei social network rientranti nella fattispecie di cui all'art. 595 c.p. stante le peculiarità che presentano rispetto alla realtà generalizzata della rete. Cosicché, ad esempio, talune Corti di merito hanno ritenuto, talvolta, di poter escludere l'integrazione del reato di diffamazione - per mancanza dell'elemento essenziale della comunicazione con più persone - per via dell'ambiente virtualmente ristretto in cui avviene la comunicazione e l'interazione all'interno dei social network rispetto alla vastità della rete internet. Più precisamente, si è ritenuto che attraverso Facebook si attua una conversazione virtuale privata con destinatari selezionati, e per tale ragione la comunicazione non poteva qualificarsi come particolarmente diffusiva e pubblica, in virtù del fatto che per accedere alle pagine di un profilo Facebook è necessario il consenso del titolare del profilo che autorizza di volta in volta solo la ristretta cerchia di individui che desidera selezionare (Cfr. Trib. Gela, 23 novembre 2011, n. 550). Altre volte, invece, è stato messo in dubbio, sulla scorta della possibilità che i social offrono di limitare la visibilità dei singoli post o commenti ad un determinato gruppo ristretto di "amici", la possibilità di qualificare il social network come "altro mezzo di pubblicità" ai fini dell'applicazione della circostanza aggravante di cui al terzo comma della norma penale in commento, comunemente applicata alla diffamazione a mezzo stampa o a mezzo internet (Cfr. Cass. pen. Sez. V Sent., 16/01/2015, n. 6785 (rv. 262689) in CED Cass. 2015). Da qui, la particolare attenzione riservata dalle Corti di merito a talune circostanze fattuali quali ad esempio il numero di amici aventi accesso ad un dato profilo, le specifiche impostazioni della privacy più o meno restrittive ad esso inerenti, l'eventuale utilizzo di "tag" che permettono di riferire il messaggio asseritamente diffamatorio al preteso soggetto leso o in ogni caso all'uscita del messaggio dalla sfera di disponibilità e controllo del titolare del profilo risultando così liberamente e pubblicamente fruibile erga omnes, al numero di visualizzazioni o di commenti raccolti, e via di seguito (Cfr. fra tutti, Trib. Monza, 2/3/2010, n. 770; Trib. Grosseto, 24/5/2012, n. 97; Trib. Livorno, Sez. GIP, 2/10/2012, n. 38912).


Una vera e propria inversione di tendenza si è registrata nel 2014 allorquando la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 12761/2014 ha, sostanzialmente, sciolto ogni dubbio riconducendo le ipotesi di diffamazione a mezzo social network entro i confini della fattispecie generale della diffamazione aggravata perpetrata mediante l'utilizzo del mezzo di pubblicità, ritenendo, in primo luogo, che la pubblicazione di una frase diffamatoria su di un profilo Facebook «rende la stessa accessibile ad una moltitudine indeterminata di soggetti con la sola registrazione al social network ed, anche per le notizie riservate agli "amici", ad una cerchia ampia di soggetti » (Cfr. Cass. pen., sez. I, Sent. 16/04/2014 n. 16712 in Foro It., 2014, 7-8, 2, 410). Sicché, postare un simile messaggio sul proprio profilo integra l'elemento soggettivo richiesto dall'art. 595 c.p., il quale postula la semplice coscienza e volontà che la frase giunga a conoscenza di più persone, anche soltanto due, il che rende irrilevante la circostanza che in concreto la frase sia stata letta soltanto da una persona.


La giurisprudenza ha, dunque, riconosciuto come l'orientamento da seguire in materia di social sia quello già affermato in tema di blog, dal momento che il social network al pari del blog può definirsi quale «spazio web attorno al quale, comunque, si aggregano navigatori che condividono interessi comuni, con la conseguente diffusività dei contenuti del blog stesso» (Cfr. Cass. pen., Sez. V, 25 luglio 2013, n. 32444). Attualmente, quindi, appare oltremodo pacifico e indubbio ritenere che l'offesa alla reputazione di una persona - per ciò che in tal sede rileva - operata da un minore avvalendosi di un post nella bacheca di un social network ben può integrare il reato di diffamazione aggravata, in quanto il mezzo di diffusione utilizzato, nella specie il social, ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, sia perché, per comune esperienza, bacheche di tal natura racchiudono un numero apprezzabile di persone, sia perché l'utilizzo del social stesso - sia esso Facebook, Twitter o Instagram - integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti condividono le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione (Cfr. fra tutte, Cass. pen., Sez. I, 8/6/2015, n. 24431; Cass. pen., Sez. I, 2/12/2016, n. 50; Cass. pen., Sez. V, 13/7/2015 -1/3/2016, n. 8328, in Dejure, 2017, 189).


4.2) (SEGUE) IL REATO DI MINACCIA


Ulteriore fattispecie delittuosa che si presta a sanzionare il fenomeno del cyberbullismo è, senz'altro, il reato di minaccia di cui all'art. 612 c.p. a mente del quale "chiunque minaccia ad altri un ingiusto danno è punito, a querela della persona offesa, con la multa fino a 1.032 euro. Se la minaccia è grave, o è fatta in uno dei modi indicati nell'articolo 339, la pena è della reclusione fino a un anno e si procede d'ufficio". Collocato fra i delitti contro la libertà individuale della persona, il reato de quo, presuppone, sotto il profilo oggettivo, l'intimidazione rivolta ad un determinato soggetto mediante la prospettazione di un danno ingiusto, rivolto alla persona o al suo patrimonio, di entità tale da limitare la sua libertà psichica. Elemento costitutivo centrale del reato è, dunque, la prospettazione di un male futuro, tale da essere potenzialmente idoneo a circoscrivere la libertà


morale della vittima e il cui verificarsi dipende dall'agente (VIGANO'). In particolare, affinché la minaccia possa dirsi integrata - per giurisprudenza pacifica - non è condizione necessaria la presenza, al compimento del fatto, della persona interessata ma è sufficiente che quest'ultima ne risulti informata, anche indirettamente, da altri soggetti, a patto che sia rilevabile la volontà dell'agente di produrre il vero e proprio risultato di intimorire la persona offesa (Cfr. Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 07/06/2012) 13-09-2012, n. 35235). Invero, siffatta fattispecie delittuosa non si prospetta solo in presenza di atti intimidatori espressi in forma verbale, ben potendosi esplicare mediante gli strumenti comunicativi più svariati come scritti, sms, gesti o e-mail. In tal senso, di particolare rilievo risulta essere la recente pronuncia della Corte di Cassazione che ha confermato la condanna inflitta per il reato di minaccia grave perpetrata mediante l'invio di un messaggi sul profilo Facebook (Cfr. Cass. pen., Sez. V, 19/4/2016, n. 16145).


4.3) (SEGUE) L'ILLECITO TRATTAMENTO DEI DATI


L'art. 7 della legge n. 71/2017 nel suo primo comma oltre a richiamare quali fattispecie delittuose applicabili nel caso di bullismo perpetrato a mezzo internet i delitti di minaccia, ingiuria e diffamazione cita, altresì, espressamente l'art. 167 d.lgs. n. 196/2003 - più comunemente noto come Codice della Privacy - a mente del quale «salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 18, 19, 23, 123, 126 e 130, ovvero in applicazione dell'articolo 129, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da sei a diciotto mesi o, se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da sei a ventiquattro mesi.2. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 17, 20, 21, 22, commi 8 e 11, 25, 26, 27 e 45, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da uno a tre anni». Il fulcro centrale dell'anzidetta fattispecie risiede nella necessità della sussistenza del consenso per il trattamento dei dati cosiddetti personali (dati sensibili, semi sensibili, comuni o giudiziari) che deve essere libero e consapevole. Allorquando si parla di trattamento, è bene precisare, che si fa riferimento a qualunque operazione di raccolta, consultazione, elaborazione, conservazione, organizzazione, modificazione, raffronto, utilizzo, comunicazione, diffusione, cessione, cancellazione e distribuzione dei dati; sicché, l'eventuale trattamento non consensuale dei suddetti dati finalizzato a trarre profitto o a recare danno ad altri, integra la fattispecie in esame, laddove dal fatto derivi un nocumento o ne consegua la diffusione e/o comunicazione dei dati stessi. Secondo quanto riportato dai dati della polizia postale, la violazione della privacy, soprattutto a danno di minori, si manifesta molto spesso nella violazione del diritto all'immagine, e cioè nell'attività di pubblicazione dell'altrui immagine e/o di video sui social network al fine di porre in atto un attacco o la loro messa in ridicolo. La questione, oltre ad avere rilievo sotto il profilo civilistico, lo assume anche da un punto di vista penalistico, dal momento che l'immissione delle immagini o dei video degli atti di bullismo integra, senz'altro, l'ipotesi della "comunicazione o diffusione", determinando altresì un apprezzabile "nocumento" per il soggetto passivo, in ragione del pregiudizio arrecato non solo alla riservatezza, ma anche all'integrità dell'immagine di quest'ultimo.


5) ULTERIORI ASPETTI PENALMENTE RILEVANTI DEL CYBERBULLISMO


Ebbene, benché l'art. 7 della legge in esame faccia espresso riferimento ai soli reati di cui agli artt. 594, 595, 612 c.p. e all'art. 167 d.lgs. n. 196/2003, in realtà, il fenomeno del bullismo a mezzo


ici previste all'interno del nostro ordinamento penale, quali i reati di sostituzione di persona (art. 494 c.p.), atti persecutori (art. 612-bis c.p.), molestie o disturbo alle persone (art. 660 c.p.), accesso abusivo ad un sistema informatico (art. 615-ter c.p.), pornografia minorile (art. 600-ter cp.), detenzione di materiale pornografico (art. 600-quater c.p.) ed ancora estorsione (art. 629 c.p.) ed istigazione al suicidio (art. 580 c.p.).


Sicché, potendo comparare i social network a dei veri e propri "spazi virtuali" in cui le informazioni ivi presenti diventano immediatamente fruibili da chiunque sul web, il primo reato che viene in rilevo - così come peraltro evidenziato dall'Autorità del Garante - è senz'altro il reato previsto e punito ex art. 494 c.p. secondo il quale «Chiunque, al fine di procurare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo la propria all'altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, è punito, se il fatto non costituisce un altro delitto contro la fede pubblica, con la reclusione fino a un anno». Il reato di sostituzione di persona - inserito nel Capo IV del Titolo VII e rubricato "Della falsità personale" - è un reato sussidiario posto a tutela della pubblica fede; esso mira infatti a tutelare i soggetti da tutti quei comportamenti connessi all'identità personale e caratterizzati dall'inganno ai danni di un numero indeterminato di individui che, nell'ambito dei rapporti sociali, devono dare fiducia a determinate attestazioni. Tale norma, pur non essendo ricompresa nelle previsioni dei reati informatici introdotte con legge n. 547/1993, trova una significativa applicazione nell'ambito delle nuove tecnologie. La stessa Corte di Cassazione, in una recente pronuncia, ha infatti confermato la condanna di un soggetto che, dopo aver creato un account di posta elettronica intestato ad un'altra persona lo ha utilizzato per instaurare rapporti con altri utenti della rete inducendoli quindi in errore. La Corte, sul punto, ha infatti evidenziato che «oggetto della tutela penale, in relazione al delitto preveduto nell'art. 494 c.p., è l'interesse riguardante la fede pubblica, in quanto questa può essere sorpresa da inganni relativi alla vera essenza di una persona o alla sua identità o ai suoi attributi sociali. E siccome si tratta di inganni che possono superare la ristretta cerchia di un determinato destinatario, il legislatore ha ravvisato in essi una costante insidia alla fede pubblica e non soltanto alla fede privata e alla tutela civilistica del diritto al nome» (Cfr. Cass. pen., Sez. V, 8 novembre-14 dicembre 2007, n. 46674). Successivamente, con la sentenza n. 18826/2012 - in tema di molestie perpetrate per interposta persona - la stessa giurisprudenza di legittimità ha ritenuto sussistente il reato di sostituzione di persona, con riferimento alla creazione di un falso profilo utente (attraverso l'ideazione di un nickname ad hoc) su un portale telematico di chat a contenuto erotico contenente il numero di telefono cellulare della vittima, adeguando la fattispecie alle nuove forme di aggressione, in particolare per via telematica, degli oggetti della tutela. Quanto affermato ha trovato fondamento sulla base della considerazione della natura del delitto come strutturalmente plurioffensiva, comprensiva della tutela anche degli interessi del privato nella cui sfera giuridica si producono gli effetti della condotta dell'agente (Cfr. Cass. pen., Sez. V, 28/11/2012-29/4/2013, n. 18826, in Dir. pen. cont., 25/6/2013. Sul punto si vedano inoltre: Cass. pen., Sez. V, 27/3/2009, n. 21574, in CED Cass. 2009; Sez. Un. pen., 25/10/2007, n. 46982 in CED Cass. 2007). Sicché, anche la mera attribuzione al terzo di falsi contrassegni personali finalizzati, è bene ribadirlo, ad arrecare un danno ovvero a procurare, a sé o altri, un ingiusto profitto, costituisce sostituzione di persona. Giova, in tal sede, precisare come la locuzione, in definitiva, che non deve essere intesa stricto sensu e cioè come sostituzione fisica di una persona al posto di un'altra, quanto piuttosto in senso più ampio e, dunque, quale attribuzione di false qualità personali a se stessi ovvero ad altri, non rilevando in nessun caso il mezzo con il quale tale condotta è realizzata. Inoltre, sempre ad avviso della Suprema Corte, integra, altresì il delitto di sostituzione di persona la condotta di colui che crea ed utilizza un profilo su social network, utilizzando abusivamente l'immagine di una


persona inconsapevole, associata ad un nome di fantasia o a caratteristiche personali negative (Cfr. Cass. pen., Sez. 16 giugno 2014, n. 25774).


Altra fattispecie delittuosa che ben si presta a sanzionare gli atti di cyberbullismo è - come detto - il reato atti persecutori, introdotto dalla legge n. 38/2009 ed inserito nel Libro II, Titolo XII rubricato "Delitti contro la persona", Sezione III - "Delitti contro la libertà morale". In realtà, tale fattispecie di reato è solita configurarsi in sfere differenti da quello in esame, quale ad esempio quello delle relazioni di coppia e, solamente in percentuale minore, nel contesto delle relazioni intercorse a scuola o all'università (MANTOVANI). Ciò nonostante, i giudici sono stati costretti a chiedersi se fosse o meno configurabile la fattispecie di stalking nella rete dal momento che l'utilizzo di mail insistenti, video e messaggi personali lanciati attraverso i social network non sono meno pericolosi di telefonate ossessive e appostamenti sotto casa. La giurisprudenza di legittimità in molte pronunce ha, infatti, ritenuto applicabile l'art. 612-bis alle ipotesi di cyberstalking. In particolare, la Suprema Corte di Cassazione - con sentenza del 24 giugno 2001, n. 25488 - ha ritenuto sussistente il reato di stalking nella condotta dell'imputato che, a seguito dell'interruzione della convivenza da parte della vittima, si era reso responsabile di continui messaggi inviati tramite il social network contenenti minacce e ingiurie, violando, peraltro, il suo domicilio e percuotendola sì da cagionarle lesioni. Secondo la Suprema Corte, nel caso specifico, i messaggi inviati tramite Facebook erano da considerarsi quali integranti il reato di stalking. Ancor più di recente la Suprema Corte ha stabilito che è, altresì, perseguibile per stalking colui che si intromette nella vita privata di una persona - di un minore nel caso del cyberbulling - al fine di destabilizzarla con condotte ossessive e assillanti, attraverso accessi indebiti e costanti nell'account mail o nel profilo Facebook della stessa (Cfr. Cass. pen., Sez. V, 24 maggio 2017, n. 25940). Il riconoscimento ad opera della giurisprudenza del cyberstalking e la particolare delicatezza del tema relativo alle nuove tecnologie come mail, sms, chat e, soprattutto, social network, con particolare riferimento ai rapporti tra adolescenti, ha spinto il legislatore ad intervenire modificando il testo originario dell'art. 612-bis, attraverso la legge n. 119/2013, con la quale è stato previsto un aumento di pena per il caso in cui il reato venga perpetrato attraverso strumenti informatici o telematici, che si è aggiunto all'aggravio di pena nel caso in cui la vittima sia un minore.


Proseguendo nella disamina dei comportamenti tipici del fenomeno in esame, ulteriore fattispecie di natura contravvenzionale che viene in rilievo è l'art. 660 c.p. a mente della quale «Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda fino a € 516». Anche sul punto, la giurisprudenza di legittimità con riferimento ad un caso in cui all'imputato era stato contestato il reato in esame perché, in qualità di caporedattore di un giornale, per petulanza o altri biasimevoli motivi, aveva molestato una redattrice del giornale con ripetuti e continui apprezzamenti volgari e a sfondo sessuale nonché inviandole, sotto pseudonimo, messaggi sgraditi attraverso la pagina di Facebook, ha affermato che, nel caso risultasse esatta la ricostruzione fattuale della Corte d'Appello - secondo cui i messaggi alla vittima erano stati postati direttamente sulla sua pagina profilo, aperta a tutti - la riconducibilità delle condotte alla fattispecie di cui all'art. 660 c.p. non dipenderebbe tanto dall'assimilabilità della comunicazione telematica alla comunicazione telefonica, quanto dalla natura stessa di Facebook, considerato "luogo virtuale" aperto all'accesso di chiunque utilizzi la rete e quindi assimilabile ad un luogo pubblico. A parere della Corte, infatti, sembra «innegabile che la piattaforma sociale Facebook rappresenti una sorta di agorà virtuale, o meglio una piazza immateriale che consente un numero indeterminato di accessi e di visioni». Peraltro, la medesima Corte, non solo ha affermato che la lettera della legge permette di assimilare Facebook alla nozione di luogo, ma ha altresì aggiunto che, a fronte della rivoluzione determinata dalle forme di aggregazione e dalle tradizionali nozioni di comunità sociale, la ratio della disposizione impone di considerare questa assimilazione


(Cfr. Cass. pen., Sez. I, 11/7/2014, n. 37596, in Dir. pen. cont., 5 marzo 2015). La stessa dottrina (PICOTTI) tende ad applicare i medesimi principi anche al reato di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico previsto e punito ex art. 615-ter c.p. il quale può dirsi integrato allorquando il soggetto acceda ad uno spazio informatico altrui in mancanza o contro il consenso o la volontà della vittima, per scopi non consentiti od oltre i limiti concessi, oppure ne operi l'accesso facendosi consegnare o utilizzando abusivamente la password d'accesso o procurandosele illegittimamente; condotte, queste, molto spesso perpetrate a danno di minori dal cyberbullo.


Le condotte del cyberbullo sono, infine, riconducibili nell'alveo dei reati di cui agli artt. 580, 600-ter e 600-quater nonché dell'art. 629 c.p. Quanto al reato di istigazione al suicidio sono, infatti, prospettabili casi in cui le condotte del cyberbullo perpetrate attraverso la rete, sviluppino insicurezza patologica e calo di autostima, un senso di emarginazione, problemi relazionali e disturbi da ansia e da depressione, fino a giungere - nei casi più gravi - a veri e propri tentativi di suicidio. Per tali casi la pena prevista è aumentata nel caso in cui la vittima sia un soggetto minore degli anni diciotto; mentre laddove il soggetto sia infra-quattordicenne si applicano le norme relative all'omicidio. Le condotte che spingono le vittime di cyberbullismo ad un gesto estremo quale quello del suicidio possono ricollegarsi al delitto di cui agli artt. 600-ter e 600-quater c.p. rispettivamente, dunque, alla detenzione ed alla divulgazione in rete di materiale pedopornografico che ritrae la vittima, la quale può essere anche minacciata e ricattata con lo scopo di estorcere del denaro in cambio della non divulgazione del materiale in questione, ipotesi, quest'ultima, riconducibile al reato di estorsione ex art. 629 c.p.


6) I NUOVI STRUMENTI PREVENTIVI DELLA LEGGE 71/2017 E IL RUOLO DELLA SCUOLA


Come più volte ribadito nel corso della trattazione, alla nuova legge 71/2017, va riconosciuto il pregio di aver predisposto a garanzia dei minori vittime di bullismo online strumenti alternativi rispetto a quelli penalistici. In tal senso, giova operare una più approfondita rassegna di quali siano tali strumenti. Una delle principali novità del provvedimento è, senz'altro, previsto - come anticipato - dall'art. 2 della legge in commento, il quale ha introdotto uno speciale rimedio a tutela della dignità della vittima di atti di cyberbulling per cui ciascun minore ultraquattordicenne che abbia subito tali atti, o un soggetto esercente responsabilità sullo stesso, al quale viene riconosciuta la facoltà di adire il titolare del trattamento o il gestore del sito internet o del social media, al fine di ottenere il l'oscuramento, la rimozione o il blocco di qualsiasi altro dato personale del minore diffuso nella rete internet. In caso di mancata risposta entro quarantotto ore, o comunque nel caso in cui non sia possibile identificare il titolare del trattamento o il gestore del sito internet o dei social media, l'interessato può rivolgere simile richiesta, mediante segnalazione o reclamo, al Garante per la protezione dei dati personali, il quale, entro le quarantotto ore successive al ricevimento della richiesta, provvede ai sensi degli artt. 143 e 144 del già citato codice della privacy.


Il successivo articolo 3, invece, stabilisce l'istituzione - entro trenta giorni dall'entrata in vigore della legge - presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, di un tavolo tecnico coordinato dal MIUR per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo, il quale entro sessanta giorni dal suo insediamento è chiamato a redigere un piano di azione integrato nell'ambito del quale attivare adeguate campagne di informazione e sensibilizzazione, nonché monitorare l'evoluzione del fenomeno con l'ausilio della Polizia Postale. Tale tavolo tecnico è composto da rappresentanti di vari gruppi di interesse quali, ad esempio, associazioni studentesche e genitoriali, associazioni attive nella protezione dei diritti del minore e nel contrasto ai fenomeni del bullismo e del cyberbullismo, operatori che forniscono servizi di social networking, oltre che dal Garante della protezione dei dati personali. Inoltre, il succitato tavolo è chiamato, entro il 31 dicembre di ogni anno, a partire dal 2018, a predisporre una relazione sulle attività svolte da presentare al Parlamento oltre che un


codice di co-regolamentazione cui devono attenersi i fornitori di servizi di social networking e gli altri operatori della rete internet che identifichi le procedure e i formati standard per la presentazione dell'istanza di cui all'art. 2. La ratio sottesa alla previsione in parola è senz'altro di natura conservativa giacché tesa ad offrire ad una specifica categoria di soggetti ritenuti meritevoli di una protezione rafforzata, uno strumento capace di metterli in condizione di tutelare in maniera più efficace la propria dignità ed i propri diritti. A ben vedere, infatti, molti degli interventi previsti dalla nuova legge sono destinati a trovare attuazione proprio all'interno delle scuole.


A conferma di ciò, l'art. 4 prevede che, per l'attuazione delle finalità di cui all'art. 1, co. 1, il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, sentito il parere del Ministro della giustizia, debba adottare linee di orientamento per la prevenzione ed il contrasto del cyberbullismo nelle scuole, provvedendo al loro aggiornamento con cadenza biennale. Il secondo comma del succitato articolo prevede, invece, che per il triennio 2017-2019 le linee guida dovranno prevedere: la formazione del personale scolastico con la partecipazione di un referente per ogni autonomia scolastica; la promozione di un ruolo attivo degli studenti ed ex studenti in attività di «peer education»; misure di sostegno e rieducazione dei minori coinvolti e un efficace sistema di governance diretto dal MIUR. Il quarto comma poi, nella medesima ottica, richiede che gli uffici scolastici regionali si adoperino a promuovere la pubblicazione di bandi per il finanziamento di progetti di particolare interesse elaborati dalle scuole in collaborazione con i servizi minorili dell'amministrazione della giustizia, le prefetture, gli enti locali, le Forze di polizia, associazioni ed enti. Viene, inoltre, previsto un ruolo attivo delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado al fine di promuovere l'educazione all'uso consapevole della rete internet e ai diritti e doveri connessi all'utilizzo delle tecnologie informatiche. Anche i servizi territoriali, vengono chiamati, ai sensi del sesto comma, a promuovere progetti personalizzati tesi a sostenere i minori che siano stati vittime di atti di cyberbullismo, nonché a rieducare i minori autori di tali condotte. Sempre nell'ambito scolastico, viene poi previsto, ex art.5, l'obbligo di informativa alle famiglie da parte del dirigente scolastico che pervenga a conoscenza di atti di cyberbullismo - fatta salva l'ipotesi che questi costituiscano reato - e di attivazione di adeguate azioni di carattere educativo. L'art. 6 prevede essenzialmente due misure: che la Polizia postale e delle comunicazioni relazioni annualmente al tavolo tecnico di cui all'art. 2 sugli esiti delle misure di contrasto al fenomeno con successiva pubblicazione della relazione stilata, ed un rifinanziamento del fondo di cui all'art. 12 della legge 48/2008.


Infine, il già citato art. 7 prevede che, nei casi in cui la condotta del cyberbullo possa rientrare nell'alveo delle fattispecie di cui agli artt. 594, 595, 612 c.p. e 167 del codice della privacy, e manchi la condizione di procedibilità, ovverosia non sia stata presentata denuncia o querela, si applichi la procedura di ammonimento di cui all'art. 8 della legge n.38/2009 già prevista per il reato di atti persecutori. Siffatta procedura si sostanzia nella convocazione da parte del questore - su richiesta della persona offesa - del minore responsabile il quale viene ammonito oralmente ed invitato a mantenere una condotta conforme alla legge i cui effetti cessano al compimento della maggiore età.


7) CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE.


Benché la legge in commento abbia prediletto strumenti non già repressivi quanto preventivi, sotto il profilo penalistico non ha, comunque, mancato di fornire una definizione di cyberbullismo indicando una sorta di summa dei reati connessi a tale fenomeno, escludendo, peraltro, il ricorso a strumenti penali incentrati su di ulteriore inasprimento del trattamento sanzionatorio per far fronte - contrariamente a quanto proposto dalla Camera - al fenomeno.

Orbene, avuto riguardo della rilevanza della questione, a parere di chi scrive, non vi è chi non veda come la scelta adoperata dal legislatore di agire prediligendo strumenti preventivi e rieducativi rispetto a quelli repressivi tipici del diritto penale risponde pienamente ai principi cardine dell'ordinamento penale stesso. Il legislatore, abbandonando gli allarmismi sociali, ha fatto propri i principi di extrema ratio e di sussidiarietà, ritenendo del tutto ultroneo intervenire adoperando strumenti repressivi nei confronti di un fenomeno che può essere validamente prevenuto facendo ricorso a strumenti di natura diversa, e che peraltro, all'occorrenza, possiede già un idoneo apparato sanzionatorio penale. Un aspetto senz'altro rilevante della nuova legge è quello di aver inquadrato - anche e soprattutto in ottemperanza alle reiterate richieste avanzate già da tempo dall'Unione Europea - il fenomeno del cyberbullismo dandone una definizione chiara e puntuale e predisponendo degli strumenti normativi concreti a tutela delle giovani vittime sempre più esposti ai rischi connessi all'erroneo utilizzo del mezzo internet ad oggi sempre più diffuso tra gli adolescenti che difficilmente ne comprendono la pericolosità.



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