Data: 20/08/2021 06:00:00 - Autore: Annamaria Villafrate

Atti persecutori ai danni della moglie separata

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Stalking tenere condotte persecutorie e minatorie ai danni della moglie e delle persone a lei vicine al solo fine di isolarla perché non si accetta che, dopo la separazione, la stessa si rifaccia una vita. Questo quanto confermato dalla Cassazione nella sentenza n. 31533/2021 (sotto allegata), che ha condiviso pienamente le conclusioni dei due giudici di merito, che non hanno dato valenza alle affermazioni dell'imputato, dichiaratosi offeso e leso nella sua dignità a causa del comportamento della moglie. Tale sentimento di vittimismo ingiustificato non fa infatti che confermare il sentimento di possessività dell'uomo e di non accettazione del desiderio della stessa di rifarsi una vita senza di lui.

La vicenda processuale

Il Tribunale prima e il giudice dell'impugnazione poi confermano la condanna dell'imputato per il reato di atti persecutori commesso ai danni della moglie da cui si è separato.

L'art. 612 bis c.p punisce infatti con la pena della reclusione di un anno fino a sei anni e sei mesi "Salvo che il fatto costituisca più grave reato (…) chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita."

La moglie tiene condotte che offendono onore e decoro del marito

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Ricorre in Cassazione l'imputato per contestare di essere in realtà lui la vittima di condotte dispettose e denigratorie messe in atto dalla ex moglie nei suoi riguardi. Sua intenzione infatti era solo di sorvegliare la figlia collocata presso la madre. Contesta inoltre il fatto che il Tribunale non abbia ammesso i documenti da cui risulta l'atteggiamento della ex, ritratta in locali pubblici in atteggiamenti lesivi del suo onore e decoro.

La contestata lesione della dignità prova la possessività dell'uomo

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Per la Cassazione il ricorso del marito è inammissibile perché generico e perché non ha nulla a che fare con una lettura critica della sentenza di appello.

Per il giudice di merito non è il marito la vittima della vicenda. Lo stesso, al contrario, ha tenuto nei confronti della moglie, già vittima di maltrattamenti e da cui tra l'altro è separato, una condotta "gravemente persecutoria".

Dalle prove sono emersi appostamenti, frasi minatorie, azioni dirette anche nei confronti delle persone vicine alla donna e finalizzate all'isolamento di quest'ultima, che non rivelano, come affermato dall'imputato, l'intenzione di controllare la figlia, ma solo d'impedire alla moglie di rifarsi una vita.

La sostenuta lesione della dignità derivante dalla riconquistata libertà della moglie non fa che confermare la possessività dell'uomo nei confronti della donna.

Valorizzati lo stato di ansia e il sentimento di paura per la propria incolumità della vittima causati delle condotte minatorie e aggressive dell'imputato nei suoi confronti.

Dati sufficienti a dimostrare la riconducibilità delle azioni dell'imputato al reato di atti persecutori, al di là dei mutamenti nelle abitudini di vita della vittima.

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