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Data: 27/04/2007 - Autore: Adnkronos Mai opporsi alle multe. Bastano le parole per rischiare il carcere, avverte la Cassazione. La Suprema Corte ha confermato la condanna a quattro mesi di reclusione, con la concessione delle attenuanti generiche, ad un 30enne della provincia di Roma per essersi rivolto alla vigilessa Monica B. che gli stava notificando una contravvenzione per violazione del Codice della strada dicendole: "Famme la multa e poi te sistemo io a te". Per la Suprema Corte, che ha dichiarato inammissibile il ricorso di Massimiliano T., il tentativo messo in atto per opporsi alla multa non puo' essere considerato espressione di "atteggiamento parolaio" proprio di chi, vedendo il vigile, tenta tutto il possibile per risparmiarsela. Anzi, "a prescindere dai riflessi personali sulla persona del destinatario", un'opposizione anche solo verbale "ha contenuto oggettivamente idoneo a rappresentare una ragionevole portata intimidatoria". Gia' la Corte d'appello di Roma, nell'aprile del 2006, allineandosi alla decisione del Tribunale monocratico di Velletri, aveva inflitto a Massimiliano T. la condanna a quattro mesi di reclusione per il reato di resistenza a pubblico ufficiale. Invano l'automobilista si e' opposto in Cassazione, sostenendo che le espressioni rivolte alla vigilessa non erano proprie di un "atteggiamento parolaio e genericamente minaccioso". E che, insomma, mancava l'"elemento oggettivo" del reato punito dall'art. 337 del c.p. La Sesta sezione penale, sentenza 14659, ha bocciato la protesta dell'uomo sostenendo che, indipendentemente da come una frase del genere possa essere interpretata da chi sta stilando il verbale di multa, il tentare di opporsi anche a parole ha in se' una "ragionevole portata intimidatoria, direttamente collegata al compimento dell'atto di ufficio o servizio del pubblico ufficiale e quindi niente affatto equivocabile in punto di reale finalita' realizzatrice di condotta positiva di resistenza a pubblico ufficiale". Da qui l'inammissibilita' del ricorso di Massimiliano T. e la conseguente condanna al pagamento di mille euro alla cassa delle ammende, oltre alle spese processuali. |
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