|
Data: 15/05/2007 - Autore: www.laprevidenza.it E' costituzionalmente illegittima la revoca delle funzioni legittimamente conferite ai dirigenti al di fuori delle ipotesi di una accertata responsabilità dirigenziale in presenza di determinati presupposti ed all'esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato. A queste conclusioni è giunta la Corte Costituzionale nella sentenza 23 marzo 2007, n. 103, chiamata, tra l'altro, a sindacare la legittimità dell'art. 3, comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145, recante “disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l'interazione tra pubblico e privato”, nella parte in cui prevede un meccanismo (c.d. spoils system una tantum) di cessazione automatica, ex lege e generalizzata, degli incarichi dirigenziali di livello generale al momento dello spirare del termine di sessanta giorni dall'entrata in vigore della stessa legge. La questione è stata promossa dal Tribunale di Roma, il quale, con sette distinte ordinanze – giudizi riuniti dalla Corte in quanto aventi ad oggetto questioni sostanzialmente analoghe – ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, lettera b), e comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145, per violazione, nel complesso, degli artt. 1, 2, 3, 4, 33, 35, 36, 41, 70, 97, 98 e 113 della Costituzione. La Corte ha accolto di valutare l'esame di merito delle censure formulate dal Tribunale di Roma, limitatamente alla sola questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145, ritenendo invece, inammissibili le altre questioni prospettate. In merito, i giudici di legittimità hanno ritenuto preliminarmente esaminare la regolamentazione e la relazione tra il vertice politico e i la dirigenza sul piano delle rispettive funzioni e gli effetti della contrattualizzazione del rapporto di servizio, con l'introduzione del principio di temporaneità degli incarichi e della previsione, rilevante nel giudizio in esame, della cessazione automatica ex lege degli incarichi stessi. Al riguardo, si è ricordato come il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, in attuazione alla legge delega 23 ottobre 1992, n. 421, provvedendo, con talune eccezioni, alla cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego, ha investito anche la dirigenza e ha previsto, tra l'altro, la separazione tra i compiti di direzione politica e quelli di direzione amministrativa, scelta accentuata con il d.lgs. n. 80 del 1998 . Con detta normativa si è disciplinato il conferimento degli incarichi ai dirigenti generali e non generali, i quali, dopo l'acquisizione della «qualifica» – con decreto del Ministro competente, sentito il Presidente del Consiglio dei ministri, riguardo i primi, mentre con decreto del Ministro, su proposta del dirigente generale competente, per i secondi – vengono conferiti per la direzione degli uffici e per funzioni ispettive e di consulenza, studio e ricerca di livello dirigenziale. I dirigenti ai quali non sia affidata la titolarità di uffici dirigenziali o che non siano riconfermati nell'incarico già assunto, svolgono, su richiesta degli organi di vertice delle amministrazioni che ne abbiano interesse, funzioni ispettive, di consulenza, studio e ricerca o altri incarichi specifici previsti dall'ordinamento». Riguardo la cessazione dell'incarico, si è ricordato come la stessa è stata ritenuta una misura conseguente all'accertamento di una responsabilità dirigenziale, che nei casi di maggiore gravità, comporta la possibilità da parte della pubblica amministrazione di recedere dallo stesso rapporto di lavoro, secondo le disposizioni del codice civile e dei contratti collettivi. In sostanza, per la Corte, la disciplina del lavoro dirigenziale – basato sul contratto di servizio su cui si innesta il predetto rapporto – ha “determinato il definitivo passaggio da una concezione della dirigenza intesa come status, quale momento di sviluppo della carriera dei funzionari pubblici, ad una concezione della stessa dirigenza di tipo funzionale”. Invero, la disciplina privatistica del rapporto di lavoro dei dirigenti non ha abbandonato le esigenze del perseguimento degli interessi generali, facendo che gli stessi godano di «specifiche garanzie» sia riguardo la verifica che gli incarichi siano assegnati «tenendo conto, tra l'altro, delle attitudini e delle capacità professionali» e sia che la loro cessazione anticipata dall'incarico avvenga in seguito all'accertamento dei risultati conseguiti La scelta del legislatore, secondo la Corte, che ha accentuato il principio della distinzione tra funzione di indirizzo politico-amministrativo degli organi di governo e funzione di gestione e attuazione amministrativa dei dirigenti, è diretta proprio a porre i dirigenti in condizione di svolgere le loro funzioni nel rispetto dei principî d'imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione. Il dirigente, pertanto, può essere sottoposto alle direttive del vertice politico, ma non può essere messo in condizioni di precarietà che consentano la decadenza senza una verifica e la garanzia del giusto procedimento. Sulla base di questa disciplina della dirigenza, ad avviso della Corte - che richiama altra propria giurisprudenza (sentenza n. 313 del 1996) - la pubblica amministrazione non può recedere liberamente dal rapporto stesso, altrimenti “si verrebbe ad instaurare uno stretto legame fiduciario tra le parti, che non consentirebbe ai dirigenti generali di svolgere in modo autonomo e imparziale la propria attività gestoria”. Dunque, il rapporto di ufficio del dirigente deve essere connotato da specifiche garanzie, le quali presuppongano che esso sia regolato in modo tale da assicurare la tendenziale continuità dell'azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione. In questo contesto, per la Corte Costituzionale, il comma 7, che stabilisce che gli stessi cessano automaticamente il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge, “prevedendo un meccanismo (cosiddetto spoils system una tantum) di cessazione automatica, ex lege e generalizzata degli incarichi dirigenziali di livello generale al momento dello spirare del termine di sessanta giorni dall'entrata in vigore della legge in esame – si pone in contrasto con gli artt. 97 e 98 della Costituzione”. Tale disposizione, per i giudici di legittimità, determina una interruzione automatica del rapporto di ufficio ancora in corso prima dello spirare del termine stabilito, violando, in carenza di garanzie procedimentali, i principi costituzionali citati e, in particolare, il principio di continuità dell'azione amministrativa che è strettamente correlato a quello di buon andamento dell'azione stessa. Pertanto, continua la Corte, la revoca delle funzioni legittimamente conferite ai dirigenti, “può essere conseguenza soltanto di una accertata responsabilità dirigenziale in presenza di determinati presupposti e all'esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato (sentenza n. 193 del 2002)”, non ritenendo giustificato la natura provvisoria per il fine di consentire l'avvio della riforma attuata dalla legge n. 145 del 2002 sostenuto dall'Avvocatura dello Stato. Infatti, conclude la Corte, “se il fine perseguito fosse stato effettivamente quello di consentire l'avvio della riforma attuata dalla predetta legge, da un lato, non si spiegherebbe perché il legislatore abbia imposto la cessazione automatica ex lege ed una tantum dei soli incarichi dirigenziali di livello generale e non anche degli altri incarichi per i quali è previsto, come si è precisato, un diverso meccanismo di valutazione di quelli in corso alla data di entrata in vigore della legge medesima; dall'altro, non troverebbe, allo stesso modo, una sua giustificazione l'adozione di una misura revocatoria ex lege non proporzionata all'obiettivo che si intendeva perseguire. In definitiva, per i motivi esposti, la Corte Costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002 per contrasto con gli artt. 97 e 98 della Costituzione, nella parte in cui dispone che «i predetti incarichi cessano il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della presente legge, esercitando i titolari degli stessi in tale periodo esclusivamente le attività di ordinaria amministrazione». Va menzionato che la Corte Costituzionale, in un'analoga vicenda e con analoghe argomentazioni, con sentenza 23 marzo 2007 n. 104, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di due normative regionali: - del combinato-disposto dell'articolo 71, commi 1, 3 e 4, lettera a), della legge della Regione Lazio 17 febbraio 2005, n. 9 (Legge finanziaria regionale per l'esercizio 2005), e dell'articolo 55, comma 4, della legge della Regione Lazio 11 novembre 2004, n. 1 (Nuovo Statuto della Regione Lazio), nella parte in cui prevede che i direttori generali delle ASL decadono dalla carica il novantesimo giorno successivo alla prima seduta del Consiglio regionale, salvo conferma con le stesse modalità previste per la nomina; che tale decadenza opera a decorrere dal primo rinnovo, successivo alla data di entrata in vigore dello Statuto; che la durata dei contratti dei direttori generali delle Asl viene adeguata di diritto al termine di decadenza dall'incarico - dell'art. 96 della legge della Regione Siciliana 26 marzo 2002, n. 2 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l'anno 2002), nella parte in cui prevede che gli incarichi di cui ai commi 5 e 6 già conferiti con contratto possono essere revocati entro novanta giorni dall'insediamento del dirigente generale nella struttura cui lo stesso è preposto. (Gesuele Bellini) Corte Costituzionale 23 marzo 2007, n. 103 - Gesuele Bellini |
|