Data: 02/04/2022 08:00:00 - Autore: Francesco Salvi

Il concorso di reati

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Il concorso di reati – disciplinato dagli artt. 71 ss. c.p. – costituisce una modalità peculiare di manifestazione del reato, e si esplica nelle ipotesi in cui uno stesso soggetto viola più volte la legge penale e, perciò, deve essere giudicato per più reati.

Il concorso di condotte penalmente rilevanti - per ragioni sistematiche - si definisce: concorso formale, se l'agente, con una sola azione od omissione, viola più disposizioni di legge, ovvero realizza più violazioni della medesima disposizione di legge (art. 81 co.1 c.p.); concorso materiale, se l'agente, con più azioni od omissioni, viola diverse disposizioni di legge, ovvero viola più volte la stessa disposizione[1].

Più specificamente, il concorso formale di reati, va a sua volta distinto in omogeneo (quando unica è la disposizione di legge violata) ed eterogeneo (quando le disposizioni di legge violate sono più di una). Ad esempio, si ha concorso formale omogeneo allorché Tizio, con un solo colpo d'arma da fuoco, uccide due persone, perché in questo caso risulta realizzato due volte, con una sola azione esecutiva, l'evento che concreta la fattispecie legale dell'omicidio. Viceversa, si ha concorso formale eterogeneo, nell'ipotesi della congiunzione carnale violenta con la propria sorella, ove, sempre con una sola azione esecutiva, risultano violate due distinte norme: l'art. 609-bis[2] c.p. e l'art. 564 c.p.[3]

Il regime sanzionatorio del concorso formale di reati

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Originariamente, la normativa codicistica, attribuiva al concorso formale (omogeneo ed eterogeneo), lo stesso trattamento sanzionatorio previsto per le ipotesi di concorso materiale (che, si ricorda, presuppone la presenza di più condotte, ciascuna delle quali integra una distinta violazione di legge) invero, la somma aritmetica delle pene da infliggere per i singoli reati, fermi restando i limiti e i correttivi risultanti dagli artt. 72-79 c.p.

Tale scelta risultava essere perfettamente coerente con la tendenza accentuatamente repressiva del vigente codice penale. Tuttavia, al fine di conseguire una maggiore mitezza ed una minore rigidità del sistema – in ossequio, tra l'altro, del principio del favor rei[4] - è intervenuto il legislatore nel 1974, il quale – con la novella introdotta dall'art. 8 del d.l. 11 aprile 1974, n. 99 – ha sostituito il criterio del cumulo materiale (somma aritmetica delle pene) con quello del cumulo giuridico.

Nella versione emendata ad opera dell'art. 8 del suindicato d.l., il 1° comma dell'art. 81 c.p. stabilisce: «È punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di legge». Il 3° comma dell'art. 81 c.p. fissa, poi, un "tetto" alla pena applicabile per effetto del cumulo giuridico, stabilendo che «la pena (unica inflitta) non può essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti», per cui sussistono, anche in relazione alle ipotesi in cui si applica il criterio del cumulo giuridico, gli stessi limiti che si osservano ove si applichi, invece, il criterio del cumulo materiale.

Reato continuato: aspetti nozionistici

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Il 2° comma dell'art. 81 c.p. estende il criterio del cumulo giuridico, consistente nell'applicazione della pena che si dovrebbe infliggere per la più grave delle violazioni commesse, aumentata sino al triplo, anche alle ipotesi di «chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge».

Dalla norma in esame emerge, chiaramente, l'istituto del c.d. reato continuato, potendosi agevolmente dedurre che trattasi di un ipotesi di concorso materiale di reati, caratterizzata però dall'ulteriore circostanza che le diverse violazioni di legge sono legate tra di esse dalla identità del disegno criminoso.

Dalla lettura della succitata norma è dunque possibile individuare gli elementi la cui sussistenza è necessaria affinché si integri la fattispecie del reato continuato: 1) la pluralità delle azioni od omissioni; 2) la pluralità di corrispondenti violazioni di legge; 3) l'identità del c.d. "disegno criminoso".

Struttura e natura giuridica del reato continuato

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Una delle principali questioni che ruotano attorno all'istituto del reato continuato, concerne la sua stessa natura giuridica: si discute, invero, sulla essenza "atomistica"[5] od "unitaria" del cumulo giuridico.

Influenza notevole sulla configurazione dogmatica dell'istituto in esame ha sortito la novella con cui il legislatore del 1974[6] ha enormemente esteso l'ambito di applicabilità della norma, dando luogo ad ulteriori problemi applicativi. Invero – originariamente – la figura del reato continuato era circoscritta ad una più limitata casistica, richiedendosi, ai fini dell'applicabilità dell'art. 81 c.p., che le violazioni attenessero ad una stessa disposizione di legge, anche se di diversa gravità.

La struttura del reato continuato – ante riforma del 1974 – constava: della identità del disegno criminoso (caratteristica che la norma continua a mantenere), e della omogeneità dei reati legati dal vincolo della continuazione. In tal senso, non solo si riconosceva a livello normativo la natura unitaria del reato continuato, ma se ne restringeva altresì – di gran lunga – l'ambito applicativo alle sole ipotesi in cui l'autore avesse mostrato un atteggiamento intellettivo concretantesi in un programma criminoso ad esecuzione frazionata. Si pensi, a titolo esemplificativo, al caso di colui che, allo scopo di impossessarsi illegalmente di una intera apparecchiatura, ne porti via ogni giorno una porzione, fino a ricomporre l'apparecchio nella sua interezza.

In considerazione dell'esempio addotto, è agevole intuire come la limitata afferenza del reato continuato alle sole ipotesi di continuazione tra fatti omogenei, facesse emergere in sede di applicazione giurisprudenziale delle abnormi disparità di trattamento. La disciplina contenuta nell'art. 81 c.p., invero, non poteva essere applicata – ad esempio – nel caso in cui Tizio, mosso dallo scopo di sequestrare Caio, avesse picchiato la sua guardia del corpo e derubato un automobile, intrattenendo in maniera clandestina quest'ultimo all'interno dell'abitacolo per diversi giorni. In questa ipotesi, Tizio, avrebbe posto in essere tre condotte delittuose, ed altrettante violazioni di tre diverse disposizioni di legge: l'art. 582 c.p. (lesione personale), l'art. 624 c.p. (furto) e l'art. 605 c.p. (sequestro di persona). In considerazione della eterogeneità dei reati e delle disposizioni di legge violate, in tale ipotesi non avrebbe trovato applicazione l'art. 81.

L'identità del disegno criminoso

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Venuta meno – ad opera della novella del 1974 – la sola ed unica riferibilità della norma alla violazione di un'unica disposizione di legge[7] e, in conseguenza dell'estensione del suo ambito applicativo, assume particolare rilevanza il requisito dell'identità del disegno criminoso ai fini dell'integrazione del reato continuato. I labili confini dell'istituto in esame, dipendono ormai esclusivamente dall'accezione che viene attribuita a questo suo essenziale elemento costitutivo, la cui sussistenza risulta decisiva ai fini di una possibile «unificazione» dei diversi episodi criminosi.

La centralità del requisito in rubrica è confermata non solo dalla estensione delle ipotesi riconducibili alla disciplina del reato continuato, bensì dall'ulteriore dato circa la rilevanza della contiguità spazio-temporale richiesta ai fini del riconoscimento della continuazione tra i reati. Secondo la più recente giurisprudenza di legittimità[8], la contiguità spazio-temporale, sebbene non possa assurgere al ruolo di elemento necessario e, se mancante, ostativo al riconoscimento della continuazione, tuttavia costituisce pur sempre un indicatore della sussistenza o meno di un unico proposito e disegno criminoso, e nient'affatto un dato neutro.

Ancora con riferimento al dato temporale, è stato chiarito– anche in sede di merito[9] – che la continuazione deve essere accertata con riferimento al momento ideativo piuttosto che a quello esecutivo del reato, e risponde a criterio logico escluderla tra fatti intervallati da una distanza di tempo tale che non possano concepirsi collegati da una preordinazione ideale cumulativa.

L'accertamento positivo dell'unicità del disegno criminoso risulta essere fondamentale, dunque, anche in relazione alla valutazione da effettuare sulla idoneità temporale. Invero, nonostante la norma faccia espressamente riferimento altresì ai «tempi diversi», non è comunque desumibile da ciò che fatti penalmente rilevanti posti in essere in tempi lontani o lontanissimi tra loro, possano essere considerati in vincolo di continuazione. La mera tendenza a delinquere ovvero l'adesione ad un programma di vita incline alla commissione di reati, non giustifica l'applicazione dell'art. 81 c.p.[10], a meno che non si accerti positivamente la presenza di un identico disegno criminoso, alla presenza del quale verrebbe ad integrarsi l'ipotesi di reato continuato quand'anche si trattasse di condotte poste in essere in tempi diversi (lontani o lontanissimi tra loro).

Ma cosa deve intendersi per «medesimo disegno criminoso»?

Il quesito è tutt'altro che di agevole soluzione, dovendosi a tal proposito registrare non solo indirizzi teorici fra loro divergenti, ma sensibile è anche la divaricazione tra teoria e prassi del reato continuato[11].

Parte della dottrina[12] ritiene che sarebbe sufficiente la mera rappresentazione mentale anticipata dei singoli fatti delittuosi poi commessi dall'autore – dunque – una sorta di programmazione ex ante che prefiguri in via prognostica i futuri reati. Altra ala accademica[13] sostiene, invece, che occorrerebbe la riconoscibilità di una prospettiva finalistica, capace di raccordare i diversi fatti secondo un rapporto di interdipendenza funzionale che li riduca ad unità, dal punto di vista soggettivo (si pensi all'uccisione di più componenti della stessa famiglia, al fine di conseguire per intero un'eredità).

In ogni caso, in dottrina, si sottolinea che solo l'esistenza di una prospettiva finalistica unitaria può apparire idonea a giustificare un trattamento sanzionatorio "di favore" che, altrimenti, finirebbe per "premiare" la marcata capacità a porre in essere condotte penalmente rilevanti, attribuendo - a chi ha programmato e realizzato una serie di reati – una sorta di "patente a delinquere".

Identità del disegno criminoso nella prassi applicativa

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Anche nella prassi applicativa si registrano diversificate interpretazioni sulla valutazione, più o meno intensa, che dovrà compiersi circa la sussistenza dell'identità del disegno criminoso. Tuttavia, nella giurisprudenza più recente, emergerebbe un atteggiamento tendente a ridurre sempre di più tale accertamento, determinandosi in tal modo una dilatazione dell'ambito applicativo dell'art. 81 co. 2 c.p.

Invero, l'integrazione del reato continuato, viene generalmente esclusa solo in presenza di una serie esecutiva del tutto incompatibile con una programmazione iniziale da cui poter desumere la presenza di un medesimo disegno criminoso atto a legare tra loro le diverse condotte penalmente rilevanti poste in essere. Ciò significa che diversi fatti legati da un vincolo di mera occasionalità – come l'ipotesi del killer professionale che, dopo aver commesso un omicidio per mandato, decida di impossessarsi di un prezioso orologio che ha scorto sul polso della vittima – non rientrano sotto la nozione di "medesimo disegno criminoso" ai fini della continuazione tra i reati (nel caso in esempio: l'omicidio e il furto/rapina).

L'accertamento positivo circa la sussistenza del requisito in rubrica, risulta – certamente – agevolato nelle ipotesi in cui, le diverse azioni od omissioni, siano state poste in essere, in maniera reiterata, in un limitato arco di tempo. La giurisprudenza, infatti, tende ad unificare sotto il vincolo della continuazione l'attuazione di programmi criminosi che si concretano, più che altro, nella reiterazione, in un ristretto arco temporale, dello stesso reato o di reati affini – anche là dove, più che di un "disegno criminoso", dovrebbe parlarsi di uno "stile di vita", data la frequenza e la reiterazione dei reati.

Ai fini del riconoscimento della continuazione e della individuazione di un medesimo disegno criminoso, non rileva neppure la diversità delle vittime: circostanza che non è idonea a ad escludere l'unicità del programma delittuoso. Il dato della diversità soggettiva delle vittime, in presenza di altri elementi – quali l'omogeneità delle violazioni e del bene protetto, le modalità della condotta e la contiguità spazio-temporale – non rilevai ai fini della valutazione sulla sussistenza del medesimo disegno criminoso, dal momento che il progetto delittuoso attiene soltanto alla persona del colpevole e non alla vittima[14].

Recentemente, il Supremo Collegio – in relazione a "casi limite" – ha specificato con maggior rigore gli elementi da cui poter desumere la sussistenza di un "medesimo disegno criminoso".
Relativamente alla continuazione tra il reato associativo e i reati-fine commessi nell'ambito dell'associazione, la Corte di Cassazione ha chiarito che non è configurabile la continuazione tra il reato associativo e i reati-fine non programmabili "ab origine" perché legati a circostanze ed eventi contingenti e occasionali, pur potendo astrattamente rientrare nell'ambito delle attività del sodalizio criminoso[15].

Inoltre, il Giudice di ultima istanza, ha chiarito che, per aversi continuazione tra reati, è necessario che l'agente, all'atto della commissione del primo reato, abbia già deliberato – seppur soltanto nelle linee essenziali – il compimento degli altri. Gli indicatori cui il giudice deve affidare la propria valutazione, che è onere del richiedente allegare e provare, sono: l'omogeneità delle violazioni e del bene protetto, la contiguità spazio-temporale, le singole causali, le modalità della condotta, la sistematicità, le abitudini programmate di vita e qualunque altro elemento atto a dimostrare la delibazione del compimento, futuro, degli ulteriori fatti di reato[16]. Su questo punto, la Corte, ha ulteriormente chiarito che l'identità del disegno criminoso non consiste in una unità dell'elemento volitivo, ma in una unità di ordine intellettivo, per effetto del quale più reati sono riconducibili ad un programma unico, rivolto al raggiungimento di un determinato fine. Pertanto, è sufficiente che i singoli reati siano individuati nelle loro linee essenziali e concepiti anche in termini di eventualità, giacché il momento volitivo si pone, di volta in volta, nella concreta realizzazione di ciascuno di essi.

L'individuazione della violazione più grave

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L'adozione del meccanismo del cumulo giuridico, in luogo del cumulo materiale – per ragioni, si ricorda, legate all'applicazione del principio del favor rei – pone l'esigenza di stabilire in base a quali criteri debba individuarsi la violazione più grave sulla quale applicare l'aumento di pena (sino al triplo) previsto dal primo comma dell'art. 81 c.p.

La novella del 1974 ha inciso notevolmente altresì in ordine a tale tipo di valutazione in quanto, prima della riforma, non poteva sorgere alcun dubbio circa il fatto che tale accertamento dovesse essere operato in concreto, essendo la continuazione ravvisabile unicamente con riguardo alla stessa fattispecie di reato (in considerazione della necessaria omogeneità dei titoli di reato da porre sotto il vincolo della continuazione).

Indirizzi contrastanti, invece, si sono registrati in rapporto alla continuazione tra fatti eterogenei (continuazione divenuta possibile solo post riforma del 1974). Invero, una parte della dottrina e della giurisprudenza ha optato per l'adozione, anche in ordine a fatti eterogenei, di una valutazione in concreto della gravità della violazione. A tal fine, si dovrebbe far riferimento non solo al titolo e al grado del reato e alle circostanza, ma anche agli indici di commisurazione della pena che emergono dall'art. 133 c.p. Alla luce di una valutazione atta a tener conto di tali elementi, potrebbe accadere – in concreto – che un reato sanzionato con pene edittali più gravi, possa essere apprezzato come più lieve.

Tuttavia, l'orientamento consolidatosi nel tempo – e, che ad oggi, risulta prevalente – si muove in maniera opposta alla tendenza suindicata. Orientamento che, tra l'altro, ha trovato altresì l'avallo della Corte di Cassazione, la quale è intervenuta sulla questione, nel massimo consesso, con la sentenza n. 25939 del 13 giugno 2013.
In tale occasione, i giudici di legittimità, hanno individuato il criterio da utilizzare nella ricerca della violazione più grave, statuendo che bisogna far capo alla astratta previsione legislativa: in particolare alla qualità e alla quantità della sanzione edittalmente prevista, tenuto per altro conto, oltre che del titolo, anche del grado (consumazione o tentativo) del commesso reato, nonché delle circostanze presenti, all'esito dell'eventuale giudizio di bilanciamento, dovendosi calcolare nel minimo l'effetto di riduzione per le attenuanti e nel massimo l'aumento per le circostanze aggravanti[17].

Il Supremo Collegio ha ancorato l'iter logico-argomentativo, seguito in tale occasione, ad alcune fondamentali norme costituzionali – gli artt. 3 e 101 co. 2 Cost. – sottolineando, per altro, come una valutazione in concreto della violazione più grave, rischierebbe di invadere uno spazio riservato alla competenza esclusiva del legislatore.
Inoltre, anche sul piano dell'interpretazione del dato letterale, la Corte ha ritenuto che l'espressione «violazione» sarebbe riconducibile non già al concetto di pena ma, tuttalpiù, alla nozione di condotta illecita descritta dalla norma incriminatrice.

L'ulteriore riferimento alle circostanze del reato – le quali devono essere necessariamente prese in considerazione nella ricerca della violazione più grave – è spiegato dalla Corte attraverso la circostanza in base alla quale, la stessa nozione di «violazione più grave», avrebbe una valenza complessa che implica la valutazione delle sue concrete modalità di manifestazione, dunque delle singole circostanze – attenuanti ed aggravanti – presenti al momento in cui il fatto di reato veniva posto in essere dal suo autore.

In ultimo luogo, la Suprema Corte ha enunciato, in tale occasione, un ulteriore punto di diritto fondamentale, il quale si esprime con la seguente massima: «in caso di concorso di reati puniti con sanzioni omogenee sia nel genere che nella specie per i quali sia riconosciuto il vincolo della continuazione, l'individuazione del concreto trattamento sanzionatorio per il reato ritenuto dal giudice più grave non può comportare l'irrogazione di una pena inferiore nel minimo a quella prevista per uno dei reati-satellite». Ciò significa che, qualora il giudice intendesse applicare il minimo aumento di pena sulla violazione ritenuta (sulla base dei criteri ivi enunciati) più grave, non può, tuttavia, applicare una pena-base inferiore al minimo edittale previsto per uno dei qualsiasi "reati-satellite", unificati a quello "più grave" dall'unicità del disegno criminoso.

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Dott. Francesco Salvi
Torre Annunziata (NA)
Cell: 3462236539
Mail: fr.salvi722@gmail.com

[1] Cfr. FIORE C., FIORE S. Diritto penale: parte generale. Utet Giuridica, 2020, p. 609 ss.

[2] L'art. 609-bis c.p. (violenza sessuale) punisce la condotta di «Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni.»

[3] L'art. 564 c.p. (incesto) punisce la condotta di « Chiunque, in modo che ne derivi pubblico scandalo, commette incesto con un discendente o un ascendente, o con un affine in linea retta, ovvero con una sorella o un fratello, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. La pena è della reclusione da due a otto anni nel caso di relazione incestuosa.

[4] Tale principio, nel diritto penale sostanziale, esprime il fondamento di taluni istituti che escludono l'esistenza dell'illecito o che producono effetti più lievi rispetto a quelli che si verificherebbero altrimenti. Tra tali istituti emerge, non a caso, quello del reato continuato, in applicazione del quale si produce un effetto teso alla mitigazione della risposta sanzionatoria nelle ipotesi in cui il reo viola più norme penalmente rilevanti. Allo stesso tempo, è chiaramente esemplificazione di quell'apparato di garanzie che il nostro sistema riconosce a tutti, partendo dal principio di legalità per arrivare al principio di tassatività e, soprattutto, al principio di irretroattività della legge penale.

[5] Si discute, succintamente, se il reato continuato debba essere considerato con un reato unico ovvero se in esso non debba ravvisarsi una pluralità di reati, tali da poter essere considerati come fattispecie autonomi e a sé stanti. Sul punto cfr. CONZ A., La natura atomistica del reato continuato ed il nonsense dei "reati satellite", in Riv. Archivio Penale, Fasc. 2, 2017

[6] Legge 7 giugno 1974, n. 220.

[7] Attualmente l'art. 81 si riferisce alla condotta di chi «commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge».

[8] Cfr. Cass. Pen., Sez. V., 14 ottobre 2021, n. 364.

[9] Cfr. C. App. di Catanzaro, Sez. II, 16 ottobre 2008, n .884.

[10] Cfr. Cass. Pen., Sez. IV, 11 febbraio 2009, n.14432

[11] Cfr. FIORE C., FIORE S. Diritto penale: parte generale, cit. p. 624.

[12] Cfr. DE FRANCESCO G.A., La connessione teleologica nel quadro del reato continuato, in Riv. It. Diritto e Procedura Penale, 1978, p. 110 ss.

[13] Cfr. RAMPIONI R., Nuovi profili del reato continuato, in Riv. It. Diritto e. Procedura Penale, 1978, p. 625 ss.

[14] Cass. Pen., Sez. I, 3 aprile 2020, n. 11359.

[15] Cass. Pen., Sez. VI, 20 gennaio 2021, n. 4680.

[16] Cass. Pen., Sez. I, 15 settembre 2020, n. 33063.

[17] Cfr. Cass., Sez. Un., 13 giugno 2013, n. 25939. Sul punto v. anche Cass. Pen., Sez. III, 28 giugno 2017, n. 225.


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