Data: 24/05/2022 06:00:00 - Autore: Marino Maglietta

Danni da deprivazione genitoriale

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L'ordinanza di Cassazione 15148/2022 affronta, in sostanza, la storia abbastanza comune di un disconoscimento di paternità nei confronti di un figlio nato da una relazione non coniugale, con successivo riconoscimento per via giudiziale e relativi obblighi di mantenimento non rispettati. Quel padre, inoltre, si astiene da qualsiasi contatto con il figlio, la cui madre agisce in primo e secondo grado per ottenere sia il rimborso del denaro da lei anticipato per coprire anche gli oneri che sarebbero spettati al padre, sia il risarcimento del danno non patrimoniale subito dal figlio e da lei stessa. La Corte di Appello nega quest'ultima richiesta e accoglie le altre, quantificando complessivamente la condanna in oltre 230.000,00 euro.

In particolare la Suprema Corte riassume le considerazioni della Corte d'appello rammentando che secondo questa il disinteresse mostrato dal genitore "se da un lato integrava gli estremi di una grave violazione dei doveri di cura ed assistenza morale da parte del genitore stesso, dall'altro non poteva che provocare una profonda lesione di tutti i diritti del figlio nascenti dal rapporto di filiazione".

La richiesta di prova del danno e le ragioni della decisione

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Sorprendentemente, il padre non contesta sotto alcun aspetto lo svolgimento dei fatti (ad esempio invocando saltuarie occasioni di incontro con il figlio), ma principalmente contesta la mancanza di prove che effettivamente la sua condotta avesse provocato danni di natura non patrimoniale nonché la mancanza della enunciazione e applicazione di criteri affidabili per la quantificazione degli stessi.

La Suprema Corte condivisibilmente respinge in toto il reclamo paterno, come infondato, anzitutto richiamando e facendo proprie le considerazioni del giudice di Appello sugli obblighi di cura che incombono individualmente su ciascuno dei genitori, anche ove l'altro possa provvedere per entrambi e lo abbia fatto. Insiste quindi la Corte nel giustificare la retroattività del provvedimento, precisando che l'obbligo di mantenere, istruire ed educare il figlio nasce dalla procreazione e quindi dal momento della nascita anche in assenza di riconoscimento di paternità naturale, che sia avvenuto successivamente.

Alla violazione complessiva degli obblighi derivanti dalla procreazione la Suprema Corte associa una sanzione di duplice natura, patrimoniale e non. Ovvero la Corte riconosce nel venir meno da parte del padre ai doveri genitoriali un comportamento che configura un illecito endofamiliare, che non può limitarsi necessariamente al solo aspetto materiale, dovendosi considerare anche la lesione di diritti inviolabili della persona, costituzionalmente garantiti ai sensi degli articoli 2 e 30 della Costituzione, da risarcire ai sensi dell'articolo 2059 c.c.

Rilevanza delle valutazioni della Cassazione

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Fin qui, dunque, la Corte di cassazione ribadisce principi già espressi, per cui sembrerebbe non presentare elementi di novità. Questa, per altro, può essere considerata solo una prima impressione, legata a ciò che si dice esplicitamente, che tuttavia si presta a porre interrogativi di portata ben più ampia, che si muovono su un terreno ancora da dissodare.

Il rilievo che viene dato all'essenzialità della funzione genitoriale, e l'assoluta gravità della mancanza di questa, nonché il richiamare gli articoli 2 e 30 della Costituzione sostenendone la violazione, sollecita immediatamente e istintivamente il commentatore a domandarsi se esistono altre fattispecie analoghe e come vengono gestite. Nonché se in circostanze sotto vari aspetti assimilabili il sistema legale reagisca con il medesimo vigore; per non dire con la medesima indignazione.

Indubbiamente il primo aspetto da considerare è quello relativo alla attribuzione di responsabilità per le carenze lamentate. Nel caso di specie la violazione degli obblighi che incombono sui genitori è sicuramente da attribuire al comportamento omissivo del genitore stesso. Quindi nulla quaestio che sia lui il principale, anzi unico, "imputato". È tuttavia inevitabile chiedersi se questa è l'unica situazione possibile e la risposta è sicuramente negativa; anche perché accanto agli articoli della Costituzione citati si è portati ad osservare la pertinenza dell'art. 3, non invocato. Soccorre in questo senso l'articolo 709 ter c.p.c. che sanziona il comportamento del genitore che ponga ostacoli all'affidamento condiviso, ovvero alla presenza dell'altro genitore e/o all'adempimento dei suoi obblighi genitoriali. Appare, dunque, evidente che quando la responsabilità è dei genitori per comportamenti omissivi oppure ostativi rispetto alle funzioni e al ruolo genitoriale la condanna è prevista e puntualmente arriva. Anche quando la limitazione non è assoluta ma parziale; anche quando l'allontanamento di un genitore – volontario o provocato - non è totale, ma esiste una sua emarginazione parziale e/o occasionale.

Cosa dire, tuttavia, degli orientamenti giurisprudenziali che a priori prevedono una presenza attenuata di uno dei genitori, ovvero una sua partecipazione ridotta alla funzione genitoriale? Un esempio concreto può meglio chiarire il concetto. Al di là di un astratto riconoscimento di pari dignità dei genitori, quando ci si cala nell'applicazione ci si imbatte in principi di diritto come: "Secondo la giurisprudenza di legittimità non è configurabile a carico del coniuge affidatario o presso il quale sono normalmente residenti i figli, anche nel caso di decisioni di maggiore interesse per questi ultimi, un obbligo di informazione e di concertazione preventiva con l'altro genitore in ordine alla effettuazione e determinazione delle spese straordinarie che, se non adempiuto, comporti la perdita del diritto al rimborso" (Cass. 2127/2016 ). Il nulla-osta all'arroganza, la formale dichiarazione della irrilevanza di uno dei genitori, la legittimazione di un suo eventuale disimpegno.

Una discriminazione che interviene capillarmente e sistematicamente e che si evidenzia attraverso la regolare assenza della assegnazione al genitore detto "non collocatario" di quei compiti di cura che pure sono sottintesi dall'articolo 30 della Costituzione e vengono esplicitati dal primo comma dell'articolo 337 ter c.c., che non a caso sostituisce il termine "cura" a "mantenimento".

Detto a chiare lettere, sono qui in discussione tutti quei provvedimenti di affidamento condiviso, ma con genitore prevalente, che all'altro attribuiscono solo un ridotto "diritto di visita", con possibilità incomprensibilmente ridotte di partecipazione alla vita dei figli, anche tenendo conto dei limiti derivanti dalla separazione. In effetti, se l'organizzazione della famiglia separata rispetta concretamente il principio della paritetica partecipazione, del paritetico impegno dei genitori nella educazione e cura dei figli, ciò si osserva solo in un certo numero di accordi extragiudiziali: virtualmente mai quando la decisione è delle istituzioni.

Pure, la fattispecie è identica. Con l'aggravante che quasi sempre quei provvedimenti non sono conseguenza di un'analisi puntuale della fattispecie ma derivano, copia e incolla, dall'applicazione di protocolli e prestampati che rappresentano l'orientamento costante delle corti territoriali. Ciò vuol dire che non si tratta di sviste occasionali, ma di interpretazioni e applicazioni sistematiche.

Siamo agli antipodi dei concetti espressi dalla Suprema Corte nell'ordinanza 15148/2022. Può essere un motivo di riflessione? Meglio ancora, di intervento?


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