Data: 19/09/2022 06:00:00 - Autore: Annamaria Villafrate

Reato di maltrattamento di animali

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Per la Cassazione non ci sono dubbi sulla responsabilità per il reato di maltrattamenti dell'imputato, che in sede di dibattimento ammette ila sua responsabilità dichiarando che il cane è morto tra le sue braccia non riuscendo a liberarlo dalle catena in cui era attorcigliato. Aver portato il corpo dell'animale a casa fa presumere che lo stesso volesse nascondere le prove del fatto.

Questo quanto emerge dalla Cassazione n. 32835/2022 (sotto allegata).

La vicenda processuale

In secondo grado viene confermata la condanna dell'imputato per il reato di maltrattamento di animali, punito dall'art. 544 ter c.p., poiché accusato di aver cagionato la morte di una cane senza necessità e per crudeltà.

Ricordiamo infatti che l'art. 544 ter c.p. punisce" 1. Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche è punito con la reclusione da tre a diciotto mesi o con la multa da 5.000 a 30.000 euro 2. La stessa pena si applica a chiunque somministra agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottopone a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi. 3 La pena è aumentata della metà se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte dell'animale."

Dichiarazioni confessorie sotto pressione

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La difesa dell'imputato con il primo motivo fa presente che il suo assistito avrebbe reso determinate dichiarazioni confessorie perché pressato dalla proprietaria dell'animale e da altre persone.

Con il secondo, in linea con il primo motivo, fa presente che un testimone in particolare avrebbe fatto pressioni all'imputato qualificandosi come guardia zoofila e agente di polizia giudiziaria.

Con il terzo lamenta la mancata interruzione della confessione da parte dell'agente, stante la mancata applicazione delle garanzie di legge.

Con il quarto infine eccepisce la prescrizione del reato.

Responsabilità emersa in sede di dibattimento

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La Cassazione rigetta il ricorso perché manifestamente infondato.

Prima di tutto la Cassazione rileva che in sede di merito è emerso che in realtà i soggetti che hanno pressato l'imputato erano tutti privati cittadini e che la guarda zoofila non era tale al momento dei fatti. Le dichiarazioni quindi non sono state rese alla polizia giudiziaria o in un procedimento penale.

Dalla motivazione della sentenza in ogni caso emerge che l'imputato avrebbe ammesso la sua responsabilità non sotto la pressione di una violenza fisica, ma solo di una discussione accesa.

L'imputato ha dichiarato inoltre in sede dibattimentale di non essere riuscito al liberare il cane dalle catene in cui era attorcigliato e che lo stesso gli è morto tra le braccia, condotta da cui la corte ha desunto la volontà di portalo a casa per liberarsene e nascondere le prove del reato.

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