Data: 02/10/2022 11:00:00 - Autore: Law In Action - di P. Storani

Tribunale penale di Macerata, Ufficio GIP/GUP, giudice Domenico Potetti, 13 luglio 2022, imp. X

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Anche il delitto di tentato omicidio realizzato dopo la condotta di stalking nei confronti della stessa vittima, contestato e ritenuto nella forma del delitto aggravato ex artt. 575 e 576, comma 1, n. 5.1, c.p., integra un reato complesso, ex art. 84 c.p., in ragione dell'unitarietà del fatto; e quindi il delitto di stalking è assorbito da quello di tentato omicidio e non può essere punito separatamente, a condizione, tuttavia, che il tentato omicidio sia commesso contestualmente (v. Sez. unite, n. 38402 del 2021).
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Per la configurabilità del tentativo rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l'agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo; che l'azione abbia la significativa probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo (fattispecie in cui l'imputato era stato colto dalla polizia giudiziaria mentre sostava all'interno di un'autovettura fuori del luogo dove si trovava la vittima, avendo presso di se un'ascia, ed avendo già annunciato a terzi che avrebbe ucciso la vittima designata).
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Il testo dell'art. 232, commi 1-2, c.p. dimostra che l'affidamento a soggetti terzi del malato mentale (a scopo di cura e controllo) è concepito dal legislatore come un requisito della misura di sicurezza della libertà vigilata, la quale a sua volta presuppone la pericolosità sociale dell'infermo. Ne consegue che quando il perito psichiatrico attesta che il soggetto non è socialmente pericoloso, a condizione che sia affidato a terzi (famiglia, struttura sanitaria, ecc.), egli finisce per attestare che al contrario il soggetto è effettivamente socialmente pericoloso.
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omissis
1) I fatti emersi durante le indagini preliminari, in sintesi.
1.1 Il giorno 15 novembre 2021 … informava i carabinieri della stazione di Corridonia che un suo dipendente… lo aveva chiamato molto agitato avvisandolo che non sarebbe andato a lavorare per qualche giorno perché aveva una faccenda da risolvere, ed erano giorni che non dormiva perché cercava una persona, lasciando intendere che si trattava di un regolamento di conti.
… sentito a SIT il giorno successivo, precisava ai carabinieri che durante il colloquio telefonico avuto con … quest'ultimo gli aveva detto che il regolamento di conti sarebbe finito "o con lui in carcere o con la sua morte", e che… aveva appreso da una delle figlie del suo dipendente che il motivo dell'astio … era dovuto al fatto che una delle figlie dell'imputato era rimasta incinta di un uomo con famiglia e figli e che questa cosa era un'onta sull'onore della famiglia.
Come riferito dallo stesso…, dopo che quest'ultimo aveva avvisato i carabinieri dell'intenzione dell'imputato accadeva che quando l'imputato medesimo rientrava in azienda dal cantiere, egli, pur avendo visto i carabinieri che si trovavano appunto in azienda, si era allontanato senza sentire ragioni.
Lo stesso pomeriggio del 15 novembre 2021 i carabinieri, su segnalazione della c.o., intervenivano presso il Bar … per una lite in atto (uno dei contendenti era armato di coltello) e, giunti sul posto, dopo aver constatato che non vi era alcuna lite né persona sospetta o agitata, conferivano telefonicamente con persona che riferiva essere figlia di … e di essere preoccupata per il padre che si doveva incontrare con tale … per regolare i conti, aggiungendo che sua sorella di 19 anni era rimasta incinta di quest'ultimo….
Quindi i militari si recavano a casa del … e conferivano con quest'ultimo, il quale con calma apparente riferiva loro che per il disonore causato alla figlia incinta e per le tradizioni del loro paese di origine, egli avrebbe dovuto uccidere … e tutta la sua famiglia, mostrandosi cosciente delle conseguenze, ma determinato a concretizzare le sue intenzioni nonostante il tentativo da parte dei militari di dissuaderlo, e facendo capire di aver combattuto durante la guerra nell'ex Jugoslavia, e quindi di essere particolarmente abile a maneggiare esplosivi e armi di ogni genere.
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1.2 Alle ore 10:10 circa del giorno 16 novembre 2021 i carabinieri ricevevano una richiesta di intervento giunta al 112 da parte di una donna (poi identificata in …), la quale segnalava la presenza fuori della propria azienda,…, di un uomo fermo all'interno della propria autovettura.
I carabinieri, giunti sul posto, identificavano ….
Quest'ultimo, alla richiesta dei militari di motivare la sua presenza, dichiarava: "sono qui per ammazzarlo e basta l'unico modo per risolvere la situazione".
Gli operanti procedevano quindi alla perquisizione del mezzo, trovando sopra il tappetino lato passeggero un'ascia da taglialegna, che l'uomo riferiva di aver acquistato poco prima.
Intorno a mezzogiorno la polizia giudiziaria procedeva altresì ad una perquisizione domiciliare presso l'abitazione dell'imputato, sequestrando cinque coltelli (poi dissequestrati e restituiti), dandosi atto che in quella mattinata, durante la perquisizione personale, lo stesso imputato aveva dichiarato di aver acquistato l'ascia perché stava aspettando che gli arrivasse una bomba a mano dalla Macedonia.
La stessa mattina … proponeva querela, esponendo di essere stato contattato il giorno prima al telefono cellulare da … il quale aveva appreso tale fatto e lo aveva minacciato di morte per aver disonorato la sua famiglia, esternando analoghe minacce anche nei confronti della figlia … ed in particolare dicendo che "se non si impiccava da sola l'avrebbe bruciata"; lo stesso aggiungeva che la cosa sarebbe finita male e che doveva essere regolata tra loro previo incontro, dicendogli "o io o te", e proferendo altre minacce del genere.
Vista la situazione venutasi a creare, esso querelante temeva per la sua vita e per quella dei suoi familiari.
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1.3 Nel corso dell'audizione ex art. 351 c.p.p. … riferiva di essere al corrente della situazione riguardante la relazione …, come pure della circostanza che costei era incinta dell'uomo …
La donna riferiva altresì che era stato il suo compagno (la persona offesa) ad aver avvistato quella mattina fuori dell'azienda la macchina dove si trovava l'imputato, seduto all'interno della sua autovettura di colore bianco.
Pertanto, aveva chiamato i carabinieri.
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omissis
2) segue: una prima conclusione in punto di fatto.
All'esito della rassegna sintetica degli elementi in punto di fatto raccolti durante le indagini preliminari, sopra svolta, si può ben dire che lo svolgimento dei fatti risulta sufficientemente chiaro.
Il movente della condotta criminosa è risultato con chiarezza, ed esso è rappresentato non tanto dalla gravidanza della giovanissima figlia dell'imputato (poco più che diciannovenne all'epoca dei fatti per cui è processo).
L'imputato, infatti, appena appresa la notizia della gravidanza della giovanissima figlia, si dimostrava comprensivo e non adirato, pur essendo probabilmente deluso dall'accaduto e dal comportamento del suo amico.
Il vero movente dell'azione criminosa in realtà è consistito nel fatto che il … mise in dubbio (anche, ma non solo, con la nota telefonata del 15 settembre, diretta all'imputato) di essere il padre del nascituro, e quindi ovviamente con ciò il … metteva in dubbio anche le qualità morali della ragazza che, evidentemente, dal suo punto di vista, avrebbe potuto intrattenere altre relazioni sessuali anche con persone diverse da lui medesimo.
Ciò fece scattare la rabbia e l'ira dell'imputato, che ne faceva una questione di onore.
Dal suo punto di vista l'onta poteva essere solo lavata con il sangue.
Pertanto, il 16 novembre 2021, in prima mattinata, acquistava l'ascia che avrebbe dovuto utilizzare per uccidere il …, e subito dopo si appostava fuori dell'azienda della sua compagna.
Ma l'imputato veniva avvistato e, capite le sue intenzioni, venivano avvisati i carabinieri che intervenivano e traevano in arresto l'imputato medesimo.
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4) Soluzione della questione di responsabilità; le premesse in diritto della decisione.
4.1 Come si è visto, nel caso di specie l'ultimo atto astrattamente riconducibile al delitto di stalking (art. 612 bis c.p.) costituisce anche atto preparatorio del delitto di tentato omicidio.
A tale proposito nulla osta, per comunanza di ratio, a ritenere applicabile anche al tentato omicidio il principio di diritto elaborato dalle Sezioni unite a proposito dell'omicidio consumato.
Il Supremo consesso ha quindi ritenuto che l'omicidio realizzato dopo la condotta di stalking nei confronti della vittima, contestato e ritenuto nella forma del delitto aggravato ex artt. 575 e 576, comma 1, n. 5.1, del codice penale (aggravante in fatto contestata anche all'imputato qui giudicato), punito con la pena edittale dell'ergastolo, integra un reato complesso, ex art. 84 c.p., in ragione dell'unitarietà del fatto.
Per le Sezioni unite, il delitto di stalking è assorbito da quello di omicidio e non può essere punito separatamente, a condizione, tuttavia, che quest'ultimo sia commesso contestualmente (come nel nostro caso).
Se, viceversa, l'omicidio viene commesso a distanza di molto tempo dalle condotte persecutorie (il che non è nel nostro caso), manca il requisito minimo dell'unitarietà del fatto e dunque gli atti persecutori non possono essere considerati assorbiti dal reato di omicidio.
Nell'occasione le Sezioni unite precisavano che ai fini della configurabilità del reato complesso è necessario che i più reati che lo compongono costituiscano elementi di struttura della fattispecie incriminatrice astratta, e non invece occasionali modalità esecutive della condotta, e che ricorra il presupposto sostanziale della unitarietà del fatto, intesa quale contestualità, sia pure per un limitato segmento temporale (come nel nostro caso), delle condotte, le quali devono convergere verso un'unitaria direzione finalistica (v. Sez. unite, n. 38402 del 2021).
Dalle superiori osservazioni discende che non è configurabile, nel caso di specie, il delitto di stalking, separatamente da quello di tentato omicidio.
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4.2 Poiché nel presente caso non vi sono stati da parte dell'imputato atti esecutivi dell'omicidio tentato, ma solo atti preparatori (l'acquisto dell'ascia, l'appostamento innanzi all'azienda del…, con l'ascia a portata di mano) è inevitabile affrontare e risolvere, sia pure negli stretti limiti funzionali della motivazione, la questione della punibilità degli atti preparatori nel delitto tentato.
Secondo una tesi che, salvo errore, a questo giudicante risulta minoritaria, la struttura normativa del tentativo è contraddistinta da due elementi essenziali: la direzione non equivoca degli atti e la loro idoneità.
Pur in assenza di una riproduzione, nel codice penale vigente, della formula (inizio dell'esecuzione), contenuta nell'art. 61 del Codice Zanardelli, ai fini della configurabilità del tentativo punibile (art. 56 c.p.) è, comunque, necessario il passaggio della condotta dalla fase preparatoria a quella esecutiva (conf. Cass., n. 9411-10).
Gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un delitto possono, infatti, essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte (come inizio di esecuzione) alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o a forma vincolata.
Se l'idoneità di un atto può denotarne al più la potenzialità a conseguire una pluralità di risultati, soltanto dall'inizio di esecuzione di una fattispecie delittuosa può dedursi la direzione univoca dell'atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall'agente.
Sono, pertanto, irrilevanti, a titolo di tentativo, gli atti preparatori, ossia le manifestazioni esterne del proposito delittuoso che abbiano carattere strumentale rispetto alla realizzazione, non ancora iniziata, di una figura delittuosa.
Essi non sono puniti come tentativo per la loro "lontananza" dal risultato lesivo e, dunque, per la loro bassa pericolosità rispetto al bene giuridico.
L'art. 115 c.p. (accordo per commettere un reato) conferma tale interpretazione per quanto attiene alle condizioni e ai limiti di rilevanza del tentativo punibile.
Dal medesimo art. 115 c.p., d'altra parte, si deduce anche la (possibile) rilevanza per l'ordinamento di atti che ancora non sono esecutivi di una fattispecie criminosa, ma che, a partire dalla prima manifestazione esterna del proposito delittuoso, predispongono i mezzi e creano le condizioni per il delitto.
Si tratta, appunto, degli atti preparatori, che vengono presi in considerazione dal citato art. 115 c.p., per l'applicazione di misure di sicurezza, fatti salvi i casi in cui, in via di eccezione, la legge li preveda come figure autonome di reato (in tal senso v. C. Cost., n. 177-80; Cass., n. 9906-93, RV 196435; Sez. 3, n. 16084-78).
La stessa nozione di univocità degli atti, contenuta nell'art. 56 c.p., deporrebbe a favore dell'impunità, a titolo di tentativo, dei meri atti preparatori.
La "direzione non equivoca" indica, infatti, non un parametro probatorio, bensì un criterio di essenza e deve essere intesa come una caratteristica oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono di per sé rivelare l'intenzione dell'agente.
L'univocità, intesa come criterio di "essenza", non esclude che la prova del dolo possa essere desunta aliunde, ma impone soltanto che, una volta acquisita tale prova, sia effettuata una seconda verifica al fine di stabilire se gli atti posti in essere, valutati nella loro oggettività per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura, siano in grado di rivelare, secondo le norme di esperienza e l'id quod plerumque accidit, l'intenzione, il fine perseguito dall'agente (v. Cass., Sez. 2, n. 36283-03, RV 228310; Sez. 1, n. 43406-01; Sez. 1, n. 2587-97, RV 210074; in senso diverso, per l'affermazione che la nozione di univocità esprime soltanto l'esigenza che in sede processuale sia raggiunta la prova dell'intenzione criminosa, prova peraltro desumibile, oltre che dall'attività realizzata dagli autori del reato, anche da altri elementi, quali la confessione, i precedenti e la personalità del reo, v. Sez. 6, n. 25040-04, RV 229347; Sez. 2, n. 3596-94, RV 197753; Cass., Sez. 2, 7 febbraio 1992).
Pare però preferibile allo scrivente la diversa tesi (che allo scrivente, salvo errore, risulta maggioritaria in giurisprudenza) la quale afferma l'irrilevanza della distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi, potendo anche l'atto preparatorio integrare gli estremi del tentativo, qualora sia idoneo e diretto in modo non equivoco alla consumazione di un reato, ossia quando abbia la capacità, valutabile ex ante, di raggiungere il risultato prefisso, in relazione alle circostanze del caso e sia, inoltre, diretto alla consumazione del reato (v. Cass., Sez. 6, n. 25040-04, RV 229347; Sez. 6, n. 27706-04; Sez. 2, n. 40343-03; Sez. 2, n. 18103-03; 28865-11; 36536-11; 46776-12; 25164-16).
In effetti, l'art. 56 c.p. non offre nessun appiglio letterale per poter ritenere che, ai fini del tentativo punibile, sia necessario qualche requisito ulteriore rispetto all'idoneità e alla non equivocità degli atti.
In tal senso, v. ad es. Cass., n. 52189 del 2016, la quale ha riconosciuto il duplice tentativo di rapina nella condotta degli imputati che, acquisita la disponibilità di guanti e cappelli, avevano compiuto una ricerca in automobile di istituti bancari non eccessivamente protetti e, in due occasioni, scesi dalla vettura, si erano portati, nel primo caso, nei pressi della porta di ingresso di una banca e, nell'altro, all'interno, salvo allontanarsi per la percepita presenza della vigilanza).
Insomma, secondo questo preferibile (perché fondato sul dato letterale) orientamento, per la configurabilità del tentativo rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l'agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo; che l'azione abbia la significativa probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo (conf. Cass., n. 18981-17, n. 11855-17, n. 30346-18, n. 47295-18, Sez. I, n. 36843-21).
In questo senso, Cass., Sez. II, n. 40912-15, RV 264589 ha ritenuto configurabile il tentativo di rapina in una fattispecie nella quale era stata accertata la presenza in ora notturna, all'ingresso del parcheggio di un supermercato, di tre persone, una delle quali alla vista degli agenti aveva gettato in terra un berretto modificato in passamontagna mediante due fori per gli occhi, mentre gli altri due avevano guanti in lattice e un coltello a serramanico, nonché la presenza in zona dell'auto degli indagati anche il giorno precedente, rilevata dal sistema satellitare installato a bordo; e Cass., Sez. II, n. 25264-16, RV 267006, ha ritenuto legittima la condanna per concorso nel tentativo di rapina di due soggetti (uno dei quali in possesso di un taglierino e di una sacca utilizzati per compiere altre rapine) che avevano lasciato l'auto nei pressi di un ufficio postale con le portiere aperte e la chiave nel quadro di accensione, e avevano cercato di sottrarsi al controllo di P.G. fornendo spiegazioni contrastanti circa la loro presenza in loco, ed avevano intrattenuto tra loro conversazioni intercettate da cui emergeva il comune intento di dissimulare la ragione di tale loro presenza.
Mutatis mutandis, si tratta di fattispecie concrete affrontate dalla giurisprudenza che hanno in comune con quella di cui al presente processo il tratto essenziale: gli atti esecutivi non sono iniziati, ma tutto è stato predisposto (luogo, occasione, disponibilità dell'arma letale) affinché il piano criminoso sia portato alle sue estreme conseguenze (salvo l'ostacolo rappresentato poi dall'intervento dei carabinieri).
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4.3 Quanto, ulteriormente, all'univocità degli atti ben poco vi è da dissertare, posto che non solo l'arma che l'imputato voleva utilizzare è chiaramente non un mezzo di discussione, di percosse o di ammonimento, quanto piuttosto un'arma letale, incompatibile con lesioni più o meno parziali e con un iter criminoso che non raggiunga l'evento mortale.
Ma soprattutto, non resta che prendere atto (a parte la ritrattazione ovviamente strumentale e di comodo di cui all'interrogatorio reso nella fase dell'arresto) del fatto che l'imputato aveva abbondantemente fatto sapere quali fossero le sue reali intenzioni criminose, addirittura fermamente esponendole ai carabinieri!
È pur vero, infatti, che inizialmente l'imputato ebbe un atteggiamento piuttosto comprensivo e accomodante rispetto al fatto della gravidanza della figlia.
Ma è univocamente stato accertato che successivamente, a seguito della telefonata ricevuta da … (il quale, dubitando di essere padre del nascituro, oltraggiava e disonorava, dal punto di vista dell'imputato, la figlia incinta) l'imputato stesso, evidentemente condizionato da un malinteso senso dell'onore, e probabilmente sentendosi tradito da quello che era stato fino ad allora un amico, venne a trovarsi in un profondo stato di ira e di rabbia, tanto da aver maturato ed avere anche manifestato la volontà omicidiaria.
Sotto il profilo della univocità degli atti rileva anche il dato storico per cui l'imputato aveva acquistato l'ascia da taglialegna proprio immediatamente prima dell'appostamento fuori dell'azienda della compagna della vittima, come documentato dalla polizia giudiziaria, e come del resto affermato dallo stesso imputato in sede di perquisizione, e versato nel relativo verbale.
D'altra parte, che l'ascia fosse detenuta dall'imputato nell'occasione per cui è processo per scopi lavorativi, insieme ad altro materiale da lavoro, è smentito dalla perquisizione della polizia giudiziaria, che non riferisce affatto della presenza di ulteriore materiale da lavoro unitamente all'ascia, in occasione della perquisizione.
La prova testimoniale di …, datore di lavoro dell'imputato, ha pienamente confermato le superiori osservazioni.
In estrema sintesi, l'ascia poteva essere uno strumento di lavoro dell'imputato, in relazione alle mansioni alle quali era adibito.
Ma quell'ascia, acquistata quella mattina, non era certamente, ragionevolmente opinando, destinata alle normali mansioni operative.
A parte il fatto che era evento raro l'acquisto di attrezzi di lavoro da parte degli stessi dipendenti (evidentemente, si comprende che l'impresa non voleva assumersi la responsabilità di attrezzatura inidonea o addirittura pericolosa e fonte di responsabilità), sta comunque il dato per cui quel giorno c'era un'ascia disponibile nell'azienda, e quindi non vi era motivo alcuno perché un dipendente, eccezionalmente, ne acquistasse un'altra….
Ma comunque, a dirimere ogni dubbio sta il fatto che quel giorno (quello del tentato omicidio) l'imputato era in ferie, e quindi ovviamente non aveva motivo alcuno né di acquistare, né di detenere l'ascia.
Si deve quindi riconoscere la sussistenza del reato di omicidio tentato.
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4.4 Alla realizzazione degli elementi oggettivo e soggettivo del reato di tentato omicidio non può tuttavia conseguire l'applicazione della pena a carico dell'imputato.
Si è visto sopra l'esito della perizia psichiatrica, e non serve attardarsi in inutili ripetizioni.
In estrema sintesi, l'imputato è in grado di partecipare coscientemente al processo, ma al momento dei fatti costitutivi del reato di omicidio tentato egli era totalmente incapace di intendere e di volere.
Il perito ha motivato il suo responso, e lo ha fatto anche rendendo deposizione in udienza.
Del resto, il giudice deve pronunciare sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il reato è stato commesso da persona imputabile (art. 530, comma 2, c.p.p.).
Ma comunque, questo giudicante non trova elementi per smentire il parere del proprio ausiliario, ed anzi lo svolgimento dei fatti appare assolutamente anomalo, tale da confermare (sia pure dall'esterno, e senza necessariamente possedere le cognizioni tecniche tipiche del perito) l'assenza della capacità in capo all'imputato di rendersi conto del disvalore del fatto, e soprattutto della capacità di diversamente volere, e cioè di determinarsi in senso diverso rispetto all'intento omicidiario.
Si consideri che l'imputato aveva "tranquillamente" rappresentato ai carabinieri il suo proposito, cioè la sua volontà di uccidere la persona offesa, e lo aveva fatto per tempo, tanto che si potesse evitarlo (e ciò è del tutto assurdo).
Si dovrà convenire quantomeno sulla bizzarria di tale comportamento, la quale conferma quello che il perito ha rappresentato, e cioè che nella mente dell'imputato non gli restava che andare incontro a ciò che era ineluttabile, e cioè alla soppressione della persona offesa: egli, nella sua mente pregiudicata dalla malattia, non vedeva altra possibilità; tradotto, egli non aveva la capacità di "volere" diversamente.
Il medesimo atteggiamento (andare incontro a ciò che è inevitabile, e che non può essere modificato dalla propria volontà) è del resto confermato da quello che disse l'imputato in occasione dell'intervento sul posto dei carabinieri.
Alla richiesta dei militari di motivare la sua presenza, l'imputato disse: "sono qui per ammazzarlo e basta l'unico modo per risolvere la situazione".
E anche in questo ultimo atto egli subiva, con sofferenza ed estrema disperata resistenza, quell'esito di morte che la malattia gli faceva palesare come assolutamente inevitabile; solo così si spiega perché l'imputato se ne stava in macchina con la sua ascia, dando tutto il tempo alla vittima di chiamare i soccorsi, quasi aspettando l'intervento dei carabinieri, invece che (con la naturale determinazione del caso) scendere immediatamente dalla vettura e affrontare la vittima predestinata.
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4.5 Tuttavia, questo giudicante non condivide il parere espresso dal perito sulla questione della pericolosità sociale dell'imputato.
È necessario, osserva il perito, che l'imputato venga segnalato al Dipartimento di Salute Mentale di Macerata per intraprendere un adeguato percorso clinico, psicoterapico e riabilitativo, che possa permettergli di mantenere i progressi clinici intrapresi e la stabilità del quadro.
Ma così facendo il perito afferma, a ben vedere, che l'imputato è socialmente pericoloso.
Infatti, l'affidamento del malato psichico ad una struttura psichiatrica protetta è una parte essenziale della misura di sicurezza della libertà vigilata, che ha, oltretutto, un preciso riferimento normativo.
L'art. 232 c.p. (speciale rispetto alla generale disciplina della trasgressione di cui all'art. 231 c.p.) prevede infatti (per quanto qui interessa) che la persona in stato d'infermità psichica non può essere posta in libertà vigilata, se non quando sia possibile affidarla ai genitori, o a coloro che abbiano obbligo di provvedere alla sua educazione o assistenza, ovvero a istituti di assistenza sociale; qualora tale affidamento non sia possibile o non sia ritenuto opportuno, è ordinato o mantenuto il ricovero (allora) nella casa di cura e di custodia.
Quest'ultimo inciso è, in definitiva, quello che risolve il problema del che fare quando non sia possibile fare affidamento sulla collaborazione del malato mentale nell'applicazione delle terapie che gli sono necessarie.
In questo caso, infatti, non resta che applicare la misura di sicurezza detentiva (a suo tempo consistente nel ricovero nella casa di cura e di custodia).
L'art. 232 c.p. offre quindi l'occasione di chiarire che l'affidamento a soggetti terzi del malato mentale (a scopo di cura e controllo) è concepito dal legislatore come un requisito della misura di sicurezza della libertà vigilata, la quale a sua volta ovviamente presuppone la pericolosità sociale dell'infermo.
Ne consegue che quando il perito psichiatrico attesta che il soggetto non è socialmente pericoloso, a condizione che sia affidato a terzi (famiglia, struttura sanitaria, ecc.), egli finisce per attestare che al contrario il soggetto è effettivamente socialmente pericoloso, proprio perché quel necessario affidamento è compreso nella misura di sicurezza, la quale presuppone a sua volta la pericolosità sociale.
Si deve quindi provvedere come in dispositivo, in ossequio al comma 4 dell'art. 3 ter del DL n. 211-11, nella parte in cui prevede che il giudice dispone nei confronti dell'infermo di mente l'applicazione di una misura di sicurezza diversa dal ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e custodia, salvo quando sono acquisiti elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale, il cui accertamento è effettuato, però, sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all'art. 133, secondo comma, n. 4, c.p. . ; e che non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali.
E' lo stesso perito a considerare necessarie, ma evidentemente sufficienti (dato che vi collega la mancanza di pericolosità sociale) le terapie del caso prestate dall'organo sanitario.
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