Data: 29/06/2007 - Autore: Roberto Cataldi
La dilazione, scrive Arthur Bloch, è la forma più letale di diniego. Questa affermazione, applicata al campo della giustizia, pone sullo stesso piano una giustizia lenta e una giustizia negata. È ormai noto che, in Italia, una sentenza di primo grado non si fa attendere meno di cinque-dieci anni. Non c'è Tribunale, nel nostro Paese, che sia in condizione di esprimersi in tempi più rapidi di questi. Giustizia non-giustizia, dunque? L'Unione Europea, che si è espressa a riguardo, ha richiamato l'Italia a un rispetto dei tempi medi di giudizio e il Ministro della Giustizia si è impegnato nella creazione di strumenti a favore dell'efficienza giudiziaria, al fine di contenere la durata dei processi al massimo entro cinque anni. Occorre, tuttavia, rilevare che, nella attuale condizione del nostro Paese, questo limite è soltanto teorico. Troppe sono le mancanze, le inefficienze, i vuoti da colmare prima di poter intravedere i contorni di una riforma di questa portata. La macchina giudiziaria sembra sul punto di naufragare e da ogni parte dell'Italia gli uffici giudiziari lamentano carenze di personale e di fondi. In realtà, nel 2006 alla giustizia e' stato destinato l'1,69% del bilancio dello Stato, contro l'1,41% del 2003, ma sono state anche decise riduzioni dei consumi intermedi (l'acquisto di beni e servizi, di toner, fotocopiatrici e carta) per circa 100 milioni di euro. Ma superiore a questa cifra è stato l'incremento di costo per l'apparato investigativo e processuale (e i costi più alti sono stati quelli per le intercettazioni).
Proviamo ad esaminare alcuni problemi di assoluta evidenza per tutti coloro che operano nel sistema e proviamo, anche, per quanto è possibile, ad immaginare alcune soluzioni.
Un primo tema è certamente quello della quantità di lavoro che “precipita” ogni giorno sui tavoli dei giudici. Lo dicono i dati: la litigiosità, nel nostro Paese, aumenta. In Italia, negli ultimi venticinque anni, il numero delle cause è circa quintuplicato. A fronte di questo aumento, benché la produttività pro-capite dei giudici sia aumentata, il numero complessivo dei giudici è diminuito. In ambito civile alla base della più ampia richiesta di giustizia sta lo sviluppo dei rapporti di impresa, economici e finanziari, così come una più netta presa di coscienza dei diritti della persona. In quest'ultimo caso, in particolare, il dato (benché “affatichi” la macchina della giustizia, già per sé prostrata) non è, in assoluto, negativo. Il fatto che si chieda giustizia per reati che, fino a qualche tempo fa, non venivano nemmeno denunciati, attesta un'evoluzione della società e dei suoi valori. Ci sono, però, anche motivazioni di altra specie. La richiesta di giustizia, in ambito civile, risponde, infatti, anche alla crisi della famiglia. Discendono da questa i molti processi per separazioni, affidamento, per le decisioni circa gli alimenti da corrispondere al coniuge più debole.
In ambito penale, benché la durata dei processi sia mediamente inferiore, gli inceppi che dilatano, in maniera qualche volta abnorme, la durata dei processi sono la complessità dell'attività istruttoria, che si traduce nell'ascolto di decine di testimoni, il ruolo stesso del giudizio di Cassazione che, non limitando il proprio giudizio ai motivi di legittimità, ma estendendosi anche al merito, diventa – di fatto – un terzo grado di merito. Ma i più gravi motivi dell'allungamento delle procedure – i più gravi e i più evitabili – sono probabilmente quelli che si riferiscono alla pretestuosità del giudizio. La lentezza della giustizia e il malfunzionamento della “macchina” processuale fanno qui i peggiori danni. Nella maggior parte dei casi l'impugnazione permette, in sede penale, di allungare i tempi del processo a tal punto da rendere piuttosto frequente la caduta in prescrizione, in secondo grado o in Cassazione.
Il quadro della situazione è noto, ma stabilire quali siano le cause (e, soprattutto, come in ogni indagine ben compiuta, stabilire di chi siano le colpe), per poter portare delle soluzioni, pare assai difficile. All'interno delle file della magistratura ci sono carenze strutturali, non c'è dubbio, e usanze quali l'ampia redazione della motivazione di sentenza certo non giovano alla riduzione dei tempi della giustizia. Per quanto riguarda i processi civili, la media ufficiale italiana è di circa 4 anni e cinque mesi. Ma si tratta appunto di una media: non è raro che un cittadino attenda oltre dieci anni la conclusione di un processo di primo grado. Se poi si ricorre in appello occorre attendere (ancora secondo la media nazionale) altri 3 anni e 6 mesi. Durante tutto questo tempo gli interessi delle parti restano in sospeso: sul piano personale e su quello economico le conseguenze possono essere anche molto gravi.
E' vero che in parte la situazione della giustizia in Italia è l'eredità di un carico di pendenze che non si riescono a smaltire, ma siamo davvero sicuri che l'attuale struttura dei processi sia idonea a condurci fuori da questa cronica situazione di emergenza? In altre parole: quello che si sta cercando di fare per ridurre le pendenze è abbastanza? I cittadini sanno – per esempio – che cosa è accaduto a seguito del provvedimento di indulto deciso con la legge n. 241 del 31 luglio 2006? A differenza dell'amnistia, infatti, l'indulto non cancella e non interrompe l'iter processuale, che deve comunque fare il suo corso. Ci si deve attendere, in altre parole, che lo svuotamento delle carceri non abbia simili effetti di alleggerimento sulla celebrazione dei processi, benché già sia noto che, alla conclusione di molti di questi, l'applicazione dell'indulto renderà vano lo sforzo di giudici e avvocati.
Spesso magistrati e avvocati si scambiano reciproche – e giustificate – accuse. Gli avvocati sostengono che la macchina della giustizia sia troppo farraginosa e lenta e che lo smaltimento del lavoro, all'interno dei Tribunali, avvenga con ritmi troppo blandi. I magistrati, per parte loro, indicano nella sproporzionata crescita del numero di avvocati una delle cause dell'aumento del ricorso ai Tribunali. Ci sono, invece, “sfide” che andrebbero raccolte e portate avanti da entrambe le parti, con senso di responsabilità. Una di queste riguarda certamente il “processo telematico”, ovvero la digitalizzazione della documentazione e l'informatizzazione delle procedure, con evidenti benefici per la presentazione di istanze, la rapidità di consultazione dei fascicoli e altro.
È difficile credere che ai ritardi della giustizia, in Italia, si rimedierà con il richiamo formale, lanciato dal Ministero, affinché il tempo delle cause si mantenga al di sotto dei cinque anni. Oppure che si rimedi rendendo meno costosa per il cittadino la giustizia non tanto attraverso lo snellimento delle procedure ma eliminando il vincolo dei minimi tariffari degli avvocati in maniera che può risultare talvolta umiliante nei confronti della professione forense. Occorreranno rimedi sostanziali. Il “processo telematico” e l'istituzione di un apposito “ufficio del giudice”, delegato alle ricerche e alla minuta delle sentenze, potrebbero essere, invece, due rimedi efficaci.
Frattanto aumentano le richieste di risarcimento danni per i ritardi della giustizia, in base alla legge “Pinto”. Dal 2003 al 2005, in Italia, le richieste di risarcimento sono aumentate del 140%. A Roma, nel biennio 2003-2005, le istanze di risarcimento sono più che quintuplicate, passando dalle 1.114 del 2003 alle 6.416 del 2005 (fonte: EURISPES).
Non c'è dubbio: è cresciuta nel cittadino la voglia di rivalsa nei confronti di quella giustizia che sembra non tenere in alcun conto il principio della ragionevole durata del processo. Ma le tutele offerte dalla legge “Pinto”, anche se consentono di compiere un primo passo in avanti, non pongono rimedio alle reali conseguenze che la lentezza della giustizia ha sulle vite dei cittadini. La Corte Europea infatti ha fissato i criteri per la quantificazione del danno dovuto per l'eccessiva durata dei processi: per ogni anno di ritardo si riconosce una somma compresa tra i 1000 e i 1500 euro. Poco davvero se si pensa ai costi che una giustizia inefficiente scarica sulla collettività e ai costi (monetari e morali) affrontati dai cittadini. E, infine, se il problema è l'affaticamento della macchina giudiziaria e la riduzione delle risorse ad essa destinate, procedimenti sanzionatori come quelli offerti dalla legge “Pinto” rischiano di avere un'efficacia di breve (o brevissimo) periodo e di produrre, su una diversa distanza, medio-lunga, effetti più dannosi che benefici.
Una delle peggiori piaghe della giustizia italiana – e dovremmo finalmente rendercene conto – è il formalismo giudiziario. Un codice di procedura che comprende più di 600 articoli non è di certo un codice ben congegnato. Le leggi sono spesso mal scritte e disorganiche. Ai nostri processi manca la semplicità. Ed un sistema troppo complesso costringe magistrati, avvocati e cittadini a una serie di attività “rituali” e del tutto inutili che non fanno altro che appesantire il carico della giustizia. Il primo vero passo verso una riforma della giustizia degna di tale nome è il superamento dell'idea aberrante per cui tutto deve sottostare alla forma, a scapito spesso di una giustizia sostanziale e a vantaggio delle cadute in prescrizione e di chi, tra le pieghe del codice e i rimbalzi della procedura, se le va scientificamente a cercare.
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