Data: 01/05/2023 06:00:00 - Autore: Anna Zaccagno

Caporalato: un fenomeno che ritorna

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L'evoluzione e il grado di civiltà di un paese si possono misurare anche dalle leggi che produce. E, forse, in particolare dal codice penale in vigore.

Non può non ammettersi che è un fallimento - di quel progresso sociale tanto ricercato ed esaltato - la "reintroduzione" nel nostro codice penale del c.d. caporalato.

Noto alla storia del mondo del lavoro - il fenomeno del caporalato, ovvero lo sfruttamento del lavoro attraverso l'impiego, e il reclutamento di manodopera da parte di intermediari non autorizzati, in gergo caporali - non resta datato, ma ritorna nel nostro presente in modo fermo e violento tanto da allarmare il legislatore, che nel 2016 - rivedendo, anche sotto l'aspetto sanzionatorio, le discipline precedenti - si vede costretto con legge del 29 ottobre n. 199 (contrasto al lavoro nero) ad inserire nel codice penale l'art. 603 bis "intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro".

Non può negarsi appunto che un tale intervento sia indice di regressione all'interno del "mondo del lavoro", e più in generale della società civile.

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Brevi cenni storici

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La storia ci consegna il fenomeno del c.d. caporalato fin dalla seconda metà del XX secolo.

Questione che ha riguardato in particolare, e pure in forme più 'pesanti', "estreme" - tanto da integrare anche la riduzione in schiavitù - il settore agricolo del mezzogiorno; per poi estendersi e prendere forma pure nell'edilizia dell'Italia industrializzata del settentrione. Ma oltre a tali noti settori in cui prolifera tutt'ora, sembra non avere "limiti di campo" né confini geografici perché successivamente ed attualmente appunto si è esteso anche nell'ambito del settore manifatturiero, in quello logistico, e nel 'settore' più moderno - di nuovo conio - dei c.d riders, della "Gig Economy", che ha dato luogo al "caporalato digitale".

Penetra, come è evidente, nelle forme settoriali che per la "morfologia" del lavoro stesso maggiormente si prestano e quindi sono esposte alla elusione delle norme a tutela dei lavoratori. Si innesta pertanto in tutti quei settori dove è facile reclutare lavoro/manodopera a basso costo; dove rinviene una maggiore indigenza di chi è esposto al "ricatto del bisogno", e quindi per la parte attiva è agevole impiantare un'"organizzazione" illecita parallela a quella del lavoro codificato.

Come spesso accade negli ambienti malavitosi "ad ampio raggio", nel cui interno cioè si intersecano anche più fatti illeciti, quello del caporalato (in agricoltura soprattutto) risulta essere un crimine che prende piede maggiormente nell'ambito dell'immigrazione clandestina; terreno che spesso genera appunto anche anelli di collegamento con altre 'forme delittuose' (droga, prostituzione…), il cui comun denominatore è il degrado economico che causa anche sottocultura.

Problema quello dello sfruttamento del lavoro che scavalca pure i confini nazionali; problema non circoscritto ma che riguarda in modo più o meno marcato l'Europa e il globo intero.

Infatti non mancano iniziative legislative dell' "impianto europeo" finalizzate ad arginare il fenomeno in oggetto all'interno degli Stati membri.

Art. 603 bis c.p. "Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro"

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L'art. 603 bis c.p.: "intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro" così recita: "Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque:

1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;

2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l'attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.

Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.

Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:

1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;

2) la reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie;

3) la sussistenza di violazione delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;

4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

Costituiscono aggravante specifica e comportano l'aumento della pena da un terzo alla metà:

1) il fatto che il numero dei lavoratori reclutati sia superiore a tre;

2) il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa;

3) l'aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazione di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro.

(Con D.L. 19/05/2022, n. 34 è previsto un aumento di pena se i fatti elencati dal presente articolo sono commessi ai danni di stranieri che hanno richiesto il permesso di soggiorno temporaneo).

L'impostazione della formula legislativa utilizzata ha destato dubbi – non accolti dall'organo giudiziario (in merito Cass. Pen. sez. IV del 7 marzo 2023, n. 9473) - di incostituzionalità, in applicazione del principio di legalità e nello specifico di tassatività e determinatezza della legge penale; per l'adesione, la corrispondenza della normativa stessa al fenomeno da contrastare; ma dai casi concreti e soprattutto da quelli "sommersi" resta certo che il fenomeno esiste e purtroppo resiste all'intervento normativo stesso, sviluppato ad hoc.

Resta pur vero comunque che è solo in un secondo momento – ossia applicando la norma al caso concreto e di converso il confluire del fatto concreto stesso all'interno della fattispecie formulata - che si può percepire la reale efficacia di prevenzione della legge penale, e quindi la sua adeguatezza alla repressione del fenomeno criminale che la stessa intende contrastare.

Stato di bisogno e caporalato: i chiarimenti della Cassazione

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L'organo Giudiziario è chiamato ad "orientare" l'interpretazione dell'intento del legislatore.

Tempestivi ed inevitabili sono stati infatti gli interventi della Suprema Corte tesi a colmare i "vuoti interpretativi" riguardo all'articolo de quo.

In merito al significato e all'individuazione degli indici di sfruttamento - elencati dall'articolo in disamina - la Suprema Corte, a colpi di sentenze, si è espressa già più volte chiarendo il significato di sfruttamento in relazione allo di stato di bisogno.

Con sent. 04/03/2022, n. 7862 precisa: " la condizione di sfruttamento che non si avvantaggia dello stato di bisogno non integra il reato di cui all'art. 603 bis c.p. avendo il legislatore scelto di punire non lo sfruttamento in sé ma solo l'approfittamento di una situazione di grave inferiorità del lavoratore, sia essa economica, che di altro genere, che lo induca a svilire la sua volontà contrattuale sino ad accettare condizioni proposte dal reclutatore o dall'utilizzatore, cui altrimenti non avrebbe acconsentito.

Non basta, dunque – continua la Corte - che ricorrano i sintomi dello sfruttamento, come indicato dall'art. 603 bis c.p. comma 3, ma occorre l'abuso della condizione esistenziale della persona, che non coincide solo con la sua conoscenza, ma proprio con il vantaggio che da quella volontariamente si trae".

Se lo sfruttamento si può ravvisare già solo in tutti quegli elementi (retribuzione, orario di lavoro, condizioni, luogo di lavoro…) non conformi al dettame normativo dei rispettivi CCNL, al diritto del lavoro in generale e alle norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro…; non è così per il significato oggettivo da dare allo stato di bisogno ex art. 603 bis c.p.

La norma in esame è finalizzata a perseguire tutti quei casi in cui lo sfruttamento va oltre, ovvero sconfina nell'approfittamento, nell'abuso del 'grave disagio' dello stato di bisogno.

Quindi è lo stato di bisogno che va indagato in ogni "quaestio facti" per accertare, se c'è stato o meno, non uno sfruttamento 'semplice', ma uno sfruttamento 'più grave' e pertanto posto in essere approfittando delle condizioni di forte debolezza economica del lavoratore, che ne mortifica la volontà.

Con sentenza del 16/03/2021 n. 24441, la stessa Corte aveva già chiarito la funzione dell'art. 603 bis, secondo cui "lo stato di bisogno va identificato non con uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, ma come un impellente assillo e, cioè una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, in grado di limitare la volontà della vittima, inducendola ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose".

Interpretazione che deve orientarsi quindi sull'asse della "libertà di autodeterminazione a contrarre"; un'autodeterminazione compromessa dallo stato di bisogno così inteso, ovvero dalla debolezza economica/esistenziale che – anche se non è assoluta - è tale al punto da non permettere una lucidità valutativa; ma che induce, per contro, il lavoratore ad una scelta non equa, iniqua, svantaggiosa; da cui ne trae un vantaggio sproporzionato, di sfruttamento – abuso - solo la parte attiva, intermediario e/o utilizzatore che sia.

Interpretazione che va ancorata infine in uno stadio intermedio, in una posizione intermedia, che si pone pertanto tra lo stato di difficoltà sic et simpliciter che permette anche altre scelte, altre soluzioni diverse dal piegarsi all'abuso; e lo stato di "difficoltà assoluta" che fa parte di quella "estrema vulnerabilità" così definita dalla giurisprudenza, che non lascia scelta alcuna e che si identifica infatti con la "riduzione in schiavitù" ex art. 600 c.p.


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