Data: 06/06/2023 06:00:00 - Autore: Redazione
Limite della continenza"La valutazione della rilevanza deontologica delle espressioni rivolte al magistrato (art. 52 cdf) e dal contegno assunto nei suoi confronti (art. 53 cdf) non può prescindere dall'analisi del contesto in cui le condotte imputate all'avvocato si sono verificate. Sicché anche espressioni oggettivamente infelici possono rientrare nel limite della continenza nell'utilizzo del linguaggio che deve connotare l'agire dell'avvocato sia nella vita privata che nell'esercizio delle sue funzioni nell'ambito della giurisdizione senza assurgere ad illecito disciplinare". Così il Consiglio Nazionale Forense, nella sentenza n. 280/2022, pubblicata il 25 maggio 2023 sul sito del codice deontologico (sotto allegata), nel decidere il ricorso di un legale sanzionato con richiamo verbale per aver usato espressioni offensive e sconvenienti nei confronti di un magistrato nel corso di un'udienza. In particolare, si contestava di avere offeso l'onore e il prestigio del giudice, affermando dapprima di trovarlo "alquanto sgradevole" e poi a seguito dell'ammonimento di avere tenuto un atteggiamento "arrogante ed allarmante" nell'avvicinarsi al banco del tribunale. Tuttavia, l'ampia istruttoria svolta dal CDD, nella quale sono stati escussi tutti coloro che hanno assistito allo scambio verbale intervenuto fra l'avvocato incolpato e il giudice, rileva il CNF, "ha consentito di ridimensionare in modo significativo la narrazione del magistrato, che ha evidentemente interpretato come aggressivo l'agire dell'avvocato sol perché oppositivo e non passivo rispetto alla propria espressione di disappunto per un ritardo di pochi minuti e giustificato da plurimi fattori (esiguità del ritardo, presenza all'apertura di udienza della collega di studio per una immediata chiamata in caso di necessità pur essendo il procedimento il quarto in ruolo)". "Non vi è dubbio - osserva ancora il Consiglio - che in tutto l'occorso il giudice abbia inteso il comportamento dell'avvocato quasi in termini 'lesa maestà' (mancata acquiescenza) e abbia mostrato poca considerazione e rispetto del lavoro cui è chiamato l'avvocato, spesso con impegni d'udienza concomitanti e obbligato all'osservanza dei tempi dettati dai ruoli dei Magistrati". In tale contesto, dunque, "l'affermazione di sgradevolezza profferita dall'avvocato non appare che essere un giudizio rivolto all'anomala situazione creatasi per l'atteggiamento del giudice avvertito come incomprensibile e ingiustificato" e non anche una valutazione indirizzata alla sua persona, bensì "al contesto ostile e di pregiudizio creatosi tanto da indurlo, come difensore, a rinunciare all'audizione dei testi indicati e ammessi". Per cui, ha concluso il CNF accogliendo il ricorso, "l'espressione usata dal ricorrente, senza dubbio infelice, a giudizio del Consiglio non ha avuto una connotazione spregiativa e non supera quel limite di continenza nell'utilizzo del linguaggio che deve connotare l'agire dell'avvocato sia nella vita privata che nell'esercizio delle sue funzioni nell'ambito della giurisdizione".
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