In assenza di accordo vincolante, il Tribunale applica il terzo comma dell'art. 2233 c.c., nel testo riformato nel 2006, che ha imposto, a pena di nullità, la forma scritta per l'accordo sui compensi professionali tra avvocato e cliente. Lo ha affermato la seconda sezione civile della Cassazione, nell'ordinanza n. 16383/2023 (sotto allegata), pronunciandosi su una lite insorta tra un avvocato e il condominio per il pagamento dei compensi professionali.
Nel ricorso innanzi al Palazzaccio, il legale denunciava, tra le altre cose, la violazione e falsa applicazione degli articoli 112 e 115 cod. proc. civ. e degli articoli 1173-1174 e 1175 cod. civ.: ad avviso della ricorrente, infatti, il giudice di appello, sostenendo che, in assenza di prova dell'accordo sulla misura del compenso per l'attività professionale svolta, dovesse essere applicata la tariffa forense di cui al d.m. 124 del 2004, non avrebbe così considerato che il Condominio non aveva mai contestato l'esistenza di questo accordo, limitandosi unicamente ad opporre la erroneità della determinazione dei compensi operata dal Tribunale.
Per gli Ermellini, il motivo è infondato.
Innanzitutto, premettono i giudici, "secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (v. tra le varie, Sez. 1, Ordinanza n. 3340/2019; Cass. ord. 22707/2017 e altre). E ancora, in tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell'art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall'art. 116 c.p.c. (v. SSUU n. 20867/2020)".
Nel caso in esame, è evidente, dunque per la S.C., che non ricorre né il vizio di violazione di norma di diritto né la violazione dell'art. 115 cpc. In effetti, il tribunale, rilevando che mancava un accordo vincolante, "ha applicato in sostanza il terzo comma dell'art. 2233 cod. civ., nel testo introdotto dall'art. 2 del d.l. n. 223/2006, convertito con modif. dalla l. n. 248/2006 che ha imposto a pena di nullità la forma scritta per l'accordo di determinazione del compenso professionale tra l'avvocato e il suo cliente".
Sul punto, invero, proseguono da piazza Cavour, "la norma indicata non può ritenersi abrogata con l'entrata in vigore dell'art. 13, comma 2, della I. n. 247/2012, lì dove ha stabilito che «il compenso spettante al professionista è pattuito di regola per iscritto all'atto del conferimento dell'incarico professionale», poiché la novità legislativa, lasciando impregiudicata la prescrizione contenuta nell'art. 2233, ult. comma, cod. civ., ha inteso disciplinare non la forma del patto, che resta quella scritta a pena di nullità, ma soltanto il momento in cui stipularlo. Conseguentemente, la scrittura non può essere sostituita con mezzi probatori diversi dal documento e la prova per presunzioni semplici, al pari della testimonianza, sono ammissibili nei soli casi di sua perdita incolpevole ex artt. 2724 e 2725 cod. civ., perché l'osservanza dell'onere formale ad substantiam non è prescritta esclusivamente ai fini della dimostrazione del fatto, ma per l'esistenza stessa del diritto fatto valere".
Per cui, concludono i giudici rigettando il ricorso, "la deduzione di un accordo in forma orale, ricavabile 'a contrario', non coglie nel segno".