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Data: 16/07/2023 07:00:00 - Autore: Angelo Casella
L'interpretazione elaborata dagli Uffici comunali appare impropria. D'altronde è significativo che, dal 1942, in oltre 80 anni di pratica giuridica, nessuno abbia mai azzardato una similare lettura del testo di legge.
La lettura degli Uffici è frutto di un equivoco, di un vero e proprio malinteso. Sono stati infatti considerati sinonimi i vocaboli "abituale" e "continuativo", mentre si tratta di termini che hanno riferimenti semantici del tutto diversi e non sovrapponibili. La parola "continuativo" descrive uno dato di fatto di carattere temporale: un dato fenomeno risulta continuativo nel tempo. "Abituale", invece, fa riferimento alla persona umana, alle sue scelte e preferenze. Esprime inclinazioni comportamentali, esito di una opzione specifica di uno o più soggetti. E' l' "habitus" dei latini: ovvero un modo di essere, non un fatto temporale.
Gli Uffici comunali invece elaborano una lettura della decisione della Corte Costituzionale dell'ottobre 2022 nella quale è detto che per “abitazione principale” deve intendersi quella nella quale il possessore “dimora abitualmente” (e dove ha dichiarato di aver stabilito la propria residenza, iscrivendosi tra i cittadini del relativo Comune). "Abitualmente", secondo i richiamati Uffici, starebbe a significare il luogo dove il soggetto abita in via continuativa e stabile. In verità, non è questo il senso della legge. “Stabilmente” ha in sé insito un concetto temporale ben preciso (essendo sinonimo di “costantemente”, “permanentemente”) che è estraneo al dettato legislativo.
Per la legge, la residenza non è la conseguenza, ovvero l'effetto di un fenomeno temporale, bensì quello di una scelta personale, di una precisa volizione del soggetto. Non si tratta dell'esito di un fenomeno di carattere temporale, che si verifica cioè in dipendenza della abitazione continua. Per la legge, la residenza è invece l'esito di un libero atto di volontà, del tutto indipendente da fattori temporali, con i quali non viene posto alcun collegamento né riferimento concettuale. La legge non dice che se il soggtto trascorre la sua vita in un certo luogo, questo è la sua residenza. Dice che il soggetto decide la propria residenza. Il tempo materialmente trascorso dal soggetto nella località prescelta è poi fenomeno del tutto occasionale e legato alle specifiche esigenze di vita di questi.
Sottolineare dunque, con il tono conclusivo adottato dagli Uffici, che “è evidente” (") la “non continuità della dimora nel Comune” da parte del soggetto preso di mira, è fenomeno del tutto inconferente, atteso che questi, come libero cittadino, è in grado – per fortuna sua – di spostarsi liberamente e di trascorrere il proprio tempo dove meglio ritiene. Che costui non frequenti esclusivamente la propria residenza è fenomeno piuttosto normale e del tutto ininfluente, quali che siano i motivi che possono costringerlo a spostarsi. Queste necessità non cambiano certo la natura della dimora prescelta ed eletta come la più importante (anzi l'unica, essendo altrove solo un ospite).
La residenza è il luogo eletto a propria “casa”. Concetto che va oltre la semplice funzione di riparo abitativo, ma assume il significato ed il valore del riferimento personale a un luogo di particolare interesse. Il più importante e con il quale intercorrono valenze personali, familiari e affettive. E questo è il senso di creare un istituto, come la residenza, quando già esiste il riferimento abitativo della dimora. Tale appare per l'appunto la ratio della creazione dell'istituto della residenza, altrimenti configurabile come una duplicazione dell'istituto della dimora.
L'infondato, inedito ed estemporaneo parametro temporale escogitato dagli Uffici, innesca tra l'altro una situazione paradossale per la quale il cittadino (contrariamente ai più fondamentali principi della civile e democratica convivenza) si troverebbe nella inimmaginabile necessità di giustificare (!) le sue ”assenze” dalla residenza, la cui frequentazione assumerebbe la rilevanza e la dimensione pubblica di un obbligo comportamentale specifico, la cui osservanza dovrebbe essere dimostrata accuratamente agli Uffici comunali che ne soppeserebbero l'effettiva fondatezza. Ed è evidente che, con tale inedito criterio, dovremmo dichiarare che milioni di persone perdono la loro residenza. Basti pensare ai docenti incaricati in Università straniere, ai commessi viaggiatori, agli operai di grandi impianti in Regioni lontane, ai professionisti del turismo, agli scienziati che passano mesi in orbita intorno al globo o nell'Antartide, eccetera. Ma è sufficiente a chiarire il punto (e a ribadire ancora una volta il principio che la residenza non ha alcun collegamento concettuale con il fattore tempo), il richiamo all'istituto del "domicilio" (art. 43 c.c.) che viene definito come il luogo ove il soggetto "ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi", e dove è ragionevole ritenere che possa eventualmente trascorrere la maggior parte della sua esistenza (se non intende morire di fame...).
La residenza trova per tal via una limpida qualificazione come il luogo dove il cittadino intende avere il suo riferimento abitativo. La legge definisce la residenza come “il luogo in cui la persona ha la dimora abituale”. Non dice “... dove la persona passa la maggior parte del suo tempo”.
Abituale, si torna a sottolineare, è concetto ben diverso da “ininterrotto, stabile, perenne, perpetuo, ecc.” Tale vocabolo, come è ben noto, significa “usuale, solito” e si utilizza, ad esempio, per indicare che una certa persona "abitualmente" porta il cappello, ovvero per un avventore che si reca “abitualmente” in un certo locale, ad indicare che è un “abitudinario” frequentatore di questo. Non significa che questi vi si trova ininterrottamente. Abituale ha il significato suo proprio di rispondente all' “habitus” del soggetto.
Si tratta di criteri di riferimento ben diversi. Nel primo caso si ha riguardo a un fattore temporale mentre, nel secondo, a una disposizione mentale del soggetto: una propensione, una preferenza per un certo luogo o modalità di essere.
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