Data: 28/11/2023 06:00:00 - Autore: Andrea Pedicone

Telecamere di sicurezza all'interno del bar: la vicenda

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La titolare di un bar è stata condannata, dal Tribunale di Messina, alla pena di 3 mila euro di ammenda per aver installato – senza la preventiva autorizzazione richiesta dalla legge – delle telecamere di sicurezza all'interno del suo esercizio commerciale in violazione dell'articolo 4 legge n. 300 del 1970.

La donna ha presentato ricorso per Cassazione, sostenendo che non sono state fornite indicazioni su due elementi centrali della fattispecie, perché non si dà conto se l'impianto fosse preposto alla registrazione, né se l'imputata fosse datrice di lavoro di qualcuno. Infatti, secondo la tesi difensiva, l'impianto è a circuito chiuso e non implica alcuna registrazione, e l'azienda non ha dipendenti. L'imputata ha anche osservato l'assenza di elementi idonei ad affermare la coscienza e volontà del fatto illecito.

Elementi essenziali per la configurazione del reato

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La presenza di lavoratori nel luogo ripreso dagli impianti di videosorveglianza è requisito imprescindibile per la configurabilità del reato in questione.

Invero, detto reato, sulla base di quanto previsto dall'articolo 15 del d. lgs. 10 agosto 2018, n. 101, che costituisce la disposizione incriminatrice, è integrato dalla violazione dell'articolo 4, comma 1, legge 20 maggio 1970, n. 300, previsione a sua volta diretta a regolamentare l'uso, da parte del datore di lavoro, degli impianti audiovisivi e degli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori.

Si segnala, inoltre, che non è configurabile la violazione della disciplina di cui agli artt. 4 e 38 legge n. 300 del 1970 – tuttora penalmente sanzionata in forza dell'articolo 171 d. lgs. n. 196 del 2003, come modificato dalla legge n. 101 del 2018 – quando l'impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti o resti necessariamente "riservato" per consentire l'accertamento di gravi condotte illecite degli stessi (cfr. Cassazione, sentenza 3255/2020).

Il Tribunale di Messina, invece, ha semplicemente dato atto che nel bar in questione erano stati installati cinque monitor e cinque telecamere senza una espressa autorizzazione. Il Giudice, però, non ha accertato se vi fossero lavoratori dipendenti, né se l'impianto di videosorveglianza in questione implicasse un significativo controllo dello svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti (qualora esistenti). Se ne ricava che la decisione in questione non ha quindi accertato la presenza di elementi essenziali per la configurazione del reato.

La decisione della Cassazione

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La Suprema Corte (con la sentenza n. 46188/2023 sotto allegata) ha quindi deciso di annullare la sentenza rinviando tutti gli atti sempre al Tribunale di Messina, ma ad un diverso Giudice, per valutare la sussistenza del reato di cui agli artt. 4 e 38 legge n. 300/1970, e 171 d. lgs. n. 196/2003 (come modificato dalla legge n. 101/2018), verificando se nel bar gestito dall'imputata prestassero servizio lavoratori subordinati e, in caso affermativo, se l'impianto di videosorveglianza implicasse un controllo significativo dell'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti e non vi fosse la necessità di tenerlo "riservato" per consentire l'accertamento di gravi condotte illecite dei lavoranti.


Andrea Pedicone

Consulente investigativo ed in materia di protezione dei dati personali

Auditor/Lead Auditor Qualificato

UNI CEI EN ISO/IEC 27001:2017 Sistemi di Gestione per la Sicurezza delle Informazioni


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