Data: 30/12/2023 08:00:00 - Autore: Angelo Casella


Il soggetto in questione, come � noto, � stato ritenuto colpevole di "omicidio volontario" e perci� condannato a 17 anni di carcere, ritenendo il Giudice non sussistere gli estremi della legittima difesa.

Questa vicenda assume i carateri dell'emblematicit� e merita quindi qualche riflessione specifica.

Notiamo innanzitutto che, nelle sue considerazioni, il Giudice ha posto a base della sua decisione la circostanza che, a suo parere, si era verificata una situazione di "desistenza" che, per definizione, esclude la motivazione a reagire. I rapinatori, bersaglio degli spari del gioielliere, si stavano allontanando dal negozio e pertanto, nella visione del Giudice, non rappresentavano pi�, per quest'ultimo, un pericolo in atto cui fosse legittimo reagire.

Esaminiamo allora questo concetto di desistenza.

Nel senso comune, che � alla base del concetto delineato dalla legge, il termine desistere significa rinunciare (ad una azione o ad un progetto).

Esaminando il nostro caso, non si evidenzia, per vero, alcun fenomeno di abbandono dell'azione intrapresa. I malfattori vengono colpiti quando stavano semplicemente completando la loro opera con l'allontanamento, con la fuga: uno dei momenti dei quali si compone l'aggressione.

Il gioielliere, protagonista dell'evento, si trova in condizioni di grave turbamento psichico, anche a causa delle percosse inflitte dai rapinatori alla moglie e alla figlia, e la fuga degli aggressori, con i valori rubati, non ha per lui il significato e la valenza di un abbandono del disegno criminoso: si tratta soltanto del completamento di questo. In quel momento, in sostanza, la rapina � � ad ogni effetto � ancora in corso. I rapinatori non stanno affatto desistendo: si allontanano solo per mettersi al sicuro: stanno completando il loro intervento.

Il gioielliere, in quel momento, da parte sua, " vive" pienamente l'impatto emotivo dell'aggressione.

Ci troviamo dunque di fronte ad una situazione nella quale il quadro degli eventi non evidenzia alcuna "desistenza".

Per il gioielliere la tensione emotiva � massima e tale senz'altro da generare e giustificare una reazione.

E' altres� da tenere in considerazione un aspetto qui trascurato. Ci troviamo infatti a pieno titolo in un caso di "provocazione" (62 c.p.). L'aggressione si configura senz'altro come una offesa alla personalit� dell'aggredito, al pari di uno schiaffo o di un insulto, ed � perci� comprensibile una reazione da parte di chi la subisce.

E' ancora da considerare che il gioielliere ha gi� subito in passato una rapina ed ha sicuramente accumulato dentro di s� una rabbia violenta, base di una reazione decisa. Infatti, egli si � procurato un'arma, una pistola che, temendo ritardi e difficolt� burocratiche, ha evitato perfino di denunciare.

La sua reazione � un atto che, nell'evolversi degli eventi, avrebbe certamente messo in atto immediatamente, ove le circostanze l'avessero consentito. Se il momento realizzativo di questa reazione � risultato spostato in avanti nel tempo di qualche secondo, ci� avviene solo in ragione dell'evolversi dei fatti.

Da ultimo, per una pi� compiuta valutazione della vicenda in esame, � da ricordare un principio fondamentale del nostro ordinamento giuridico: chi viola le regole si assume automaticamente la responsabilit� di tutte le conseguenze, dirette e indirette, del suo gesto.

Cos�, per fare un esempio, colui che, a bordo di un automezzo, non rispetta lo stop semaforico, � responsabile dei danni causati dalla manovra di emergenza cui ha costretto il mezzo sopravveniente.


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