Data: 24/01/2024 06:00:00 - Autore: Silvia Pascucci

I messaggi offensivi

Il caso trae origine dalla pubblicazione di alcune frasi da parte di una mamma su Facebook, con cui l'imputata aveva denigrato un'altra mamma. Nella vicenda, la vittima della diffamazione aveva invitato l'imputata, con messaggio sul gruppo WhatsApp delle mamme, a recuperare il proprio figlio alla festa organizzata dalla prima in quanto il bambino risultava eccessivamente vivace.

A fronte di tale "pubblica" richiesta, l'imputata aveva definito, su Facebook, l'altra madre come una persona insensibile ed indelicata, che voleva impietosire gli altri partecipanti alla chat "al fine di raggirare ed estorcere magari qualche soldo per nuove dimore o serate tra banchetti e alcool".

La Corte d'appello di Salerno, chiamata a pronunciarsi sul caso, aveva ritenuto integrato il reato di diffamazione contestato alla madre, considerata la portata chiaramente offensiva delle frasi pubblicate che facevano peraltro riferimento a fatti non veri (ovvero l'aver offeso il proprio figlio). Il Giudice escludeva altresì la causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto.

Avverso tale decisione l'imputata aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Necessaria una condotta ingiusta della persona offesa

Per quanto qui rileva, la difesa della ricorrente, tra i diversi motivi d'impugnazione, ha invocato la causa di esclusione della punibilità di cui all'art. 599 c.p. in quanto "le frasi denigratorie pubblicate su Facebook ed oggetto di contestazione sono state scritte per reazione al fatto che la persona offesa aveva preteso, mediante un messaggio nella chat-gruppo WhatsApp delle mamme, di cui entrambe facevano parte, che l'imputata si affrettasse a riprendere suo figlio alla festa, senza specificarne le ragioni, così generando in lei il panico, mancando risposta alcuna alla sua richiesta di sapere se fosse accaduto qualcosa al proprio figlio; salvo poi venire a sapere (…) che il bambino doveva essere allontanato dalla festa perché troppo vivace".

Le circostanze, a detta della difesa, come appena descritte, avevano ingenerato nella ricorrente uno stato d'ira per aver subito l'altrui fatto ingiusto, con conseguente ed immediata reazione.

Rispetto a tale contestazione la Corte di Cassazione, con sentenza n. 789/2024 (sotto allegata), ha tuttavia ritenuto non fondato il ricorso per le seguenti ragioni.

La Corte spiega che "non vi è dubbio che la causa di non punibilità della provocazione di cui all'art. 599, comma 2, cod. pen. sussiste non solo quando il fatto ingiusto altrui integra gli estremi di un illecito codificato, ma anche quando consiste nella lesione di regole di civile convivenza; tuttavia, tale lesione deve pur sempre essere apprezzabile alla stregua di un giudizio oggettivo, con conseguente esclusione della rilevanza della mera percezione negativa che di detta violazione abbia avuto l'agente". Posta tale premessa, la Suprema Corte prosegue spiegando che "nel caso di specie, la Corte territoriale ha escluso che alla base dell'invettiva a mezzo social, posta dalla ricorrente, vi fosse una condotta della persona offesa definibile come "ingiusta" su di un piano di valutazione oggettivo" e questo in quanto la richiesta rivolta all'imputata di contenere la condotta vivace del proprio bambino e la richiesta di portarlo via anticipatamente dalla festa dove lo stesso si trovava, non potevano ritenersi richieste ingiuste, né al contempo era stato provato che la vittima aveva in alcun modo offeso l'agente.

Per tali ragioni la Suprema Corte non ha ritenuto fondato il suddetto motivo di ricorso formulato dall'imputata.


Tutte le notizie