Data: 26/02/2024 07:00:00 - Autore: Andrea Pedicone

Falsa testimonianza: la vicenda

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La vicenda trae origine dalla denuncia di una mamma che segnala all'Autorità Giudiziaria le violenze fisiche che la figlia subisce dal compagno. Nel corso del processo la ragazza viene sentita come parte offesa, e mente perché è ancora innamorata dell'uomo temendo che possa essere condannato per il reato di maltrattamenti in famiglia. Viene così processata e condannata per il reato di falsa testimonianza, sia dinanzi al Tribunale sia dinanzi la Corte di Appello. I suoi avvocati ricorrono in Cassazione.

La difesa

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I legali della giovane donna, dinanzi alla Suprema Corte, hanno lamentato il mancato riconoscimento della causa di non punibilità di cui all'articolo 384 c.p., stante il rapporto di convivenza more uxorio instaurato tra i due, desumibile dalla stessa imputazione del procedimento in cui sarebbe stata resa la falsa testimonianza, nonché dalla relazione redatta dagli assistenti sociali i quali avevano dato atto del rapporto di stabile convivenza tra le parti. Aggiungono, inoltre, che al momento dell'emissione del provvedimento di allontanamento di cui è stato destinatario l'uomo, la compagna aveva espresso la sua disapprovazione per la decisione intervenuta, giacché essa avrebbe interrotto la loro convivenza.

L'art. 384, comma 1, c.p.

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La Cassazione ha già ritenuto che l'articolo 384, comma primo del codice penale, è applicabile analogicamente anche a chi abbia commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave ed inevitabile nocumento nella libertà e nell'onore. Si è infatti ravvisata, nella previsione in esame, una scusante soggettiva che investe la consapevolezza: definizione che comprende le ipotesi in cui l'agente pone in essere un fatto antigiuridico, nella consapevolezza di violare la legge, e quindi con dolo, e in cui l'ordinamento si astiene dal muovergli un rimprovero giacché la sua condotta è dettata da circostanze che hanno influito sulla possibilità di avere un comportamento alternativo. L'ordinamento ha scelto di non punire i reati commessi per salvare la libertà o l'onore di un prossimo congiunto, tra i quali rientrano anche gli appartenenti alle coppie di fatto.

Nel caso in questione, secondo i giudici della Corte di Appello, l'imputata "non aveva offerto alcun elemento atto a dimostrare la sussistenza di una situazione di pericolo di danno concreto e attuale per la sua persona o per quella di un prossimo congiunto, di guisa che difettavano i presupposti per l'applicazione dell'esimente in parolasenza offrire elementi idonei ad apprezzare la sussistenza di una stabile convivenza, intesa come rapporto fondato su uno stabile progetto di vita, connotato dalla volontà di vivere insieme, se del caso di avere figli, beni in comune e di dare vita a un nucleo stabile e duraturo, con assunzione di un impegno di reciproca assistenza".

La decisione della Cassazione

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La Cassazione - con la sentenza numero 8114 del 23 febbraio 2024 (sotto allegata) - ha annullato senza rinvio la condanna, assolvendo la donna perché il fatto non costituisce reato, in applicazione dell'esimente di cui all'articolo 384 c.p.

Gli Ermellini hanno infatti rilevato che la donna, sin dal giudizio di primo grado, aveva dichiarato di convivere con l'uomo, addirittura unitamente al di lei figlio minore. Rileva, inoltre, che la denuncia venne presentata dalla madre della donna, e che quest'ultima – nel corso della sua testimonianza – aveva dichiarato di essere ancora innamorata del compagno. "Circostanze che, se adeguatamente e logicamente considerate, avrebbero dovuto condurre la Corte di merito ad affermare che la ricorrente, allorquando rese la testimonianza nel procedimento a carico dell'uomo, temeva per la libertà del compagno, che avrebbe subito un inevitabile pregiudizio, se ella avesse raccontato i maltrattamenti subiti".


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