Data: 09/03/2024 06:00:00 - Autore: Silvia Pascucci
Invio privato dei messaggi
La vicenda in esame prende avvio dalla decisione emessa dalla Corte di appello di Milano con la quale veniva rigettata la domanda risarcitoria formulata dall'appellante poiché ritenuti non integrati gli estremi della diffamazione dal momento che i messaggi erano stati inoltrati dall'agente ad un unico destinatario alla volta, quindi in forma riservata e senza superare i limiti della continenza.
Sulla scorta degli eventi sopra descritti, il Giudice di secondo grado aveva dunque ritenuto che nel caso di specie non fosse stato integrato l'elemento oggettivo del reato di diffamazione, consistente nella comunicazione diretta ad una pluralità di destinatari.
Avverso la sentenza del Giudice di merito, la parte soccombente aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.
Diffusività della condotta denigratoria
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 5701/2024 (sotto allegata), ha rigettato il ricorso proposto.
Per quanto qui rileva, il Giudice di legittimità ha ripercorso le valutazioni di merito compiute dalla Corte d'appello in ordine alla configurabilità del presupposto oggettivo del reato di diffamazione, consistente, come sopra detto, nella divulgazione del messaggio ad una pluralità di destinatari.
Rispetto a tale elemento la Corte ha spiegato che, nell'ipotesi in cui, come nel caso in esame "ci siano state più comunicazioni, ma tutte indirizzate ad un singolo destinatario, l'elemento oggettivo della diffamazione, integrato dalla diffusività della condotta denigratoria, potrebbe sussistere solo nell'ipotesi in cui l'agente (…) esprima la volontà o ponga comunque in essere un comportamento tale da provocare, da parte dell'agente medesimo, l'ulteriore diffusione del contenuto diffamatorio attraverso il destinatario".
Posto quanto sopra e fermo restando, ha ricordato la Corte, l'insindacabilità di tale elemento di fatto in sede di legittimità, è stato evidenziato come la Corte d'appello aveva escluso che le affermazioni dell'agente fossero "surrettiziamente volte a sollecitare in effetti la diffusione dei messaggi stessi e comunque di notizie preoccupanti sul conto del (…) nell'ambiente musicale al quale tutte le persone coinvolte appartenevano".
Quanto sopra, ha rilevato la Corte, non può essere messo in discussione nemmeno dal fatto che, nel caso di specie, lo strumento di comunicazione utilizzato (la chat privata di Facebook) si potesse prestare di per sé ed in ragione delle sue intrinseche caratteristiche, ad una facile diffusione delle affermazioni ivi compiute, nonché fosse idoneo a formare in capo al mittente l'accettazione del relativo rischio.
La Corte ha, a tal proposito, rilevato che "l'apprezzamento aprioristico della potenziale idoneità diffusiva del mezzo di comunicazione usato, scisso dalle considerazioni delle circostanze del caso concreto, avrebbe l'effetto di ribaltare impropriamente sul mittente di un messaggio con unico destinatario l'onere della prova di non aver voluto l'ulteriore diffusione del messaggio". In ragione del riparto dell'onere probatorio nell'ambito della fattispecie delittuosa della diffamazione, la Corte ha dunque affermato che "in mancanza di una prova del divieto di diffusione da parte del mittente, si presume che i messaggi inviati tramite social network sui canali di posta privati siano destinati alla diffusione o che, comunque, il mittente abbia consapevolmente accettato il rischio della diffusione da parte del destinatario".
Proprio in considerazione di tale iter valutativo, il Giudice di legittimità ha messo in rilievo come la Corte d'appello avesse fatto corretto uso dei principi indicati, giungendo alla conclusione di non poter ritenere provata in capo all'imputato la volontà o l'accettazione del rischio che i messaggi trasmessi ed inviati tramite la chat di Facebook ad un destinatario determinato, potessero poi essere diffusi ad altri soggetti.
In ragione di tali argomentazioni la Corte ha dunque rigettato il ricorso proposto e compensato le spese di lite.
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