Data: 05/05/2024 06:00:00 - Autore: Redazione

"Sebbene le condizioni di salute psicofisica dell'incolpato non costituiscano, di per sè sole, una scriminante per l'illecito deontologico (per il quale è infatti sufficiente la volontarietà dell'azione), pur tuttavia ben possono incidere - mitigandola - sulla relativa sanzione disciplinare". E' quanto affermato dal Consiglio Nazionale Forense, nella sentenza n. 4/2024 (pubblicata il 7.4.2024 sul sito del Codice deontologico e sotto allegata), esprimendosi sul ricorso presentato da un avvocato avverso la decisione del Consiglio Distrettuale di Disciplina di Trento che gli aveva inflitto la sanzione disciplinare della censura.

Nel caso specifico, il Consiglio coglie l'occasione per ricordare, altresì, che "l'avvocato esercita la professione forense in libertà, autonomia e indipendenza (art. 2 L. n. 247/2012, art. 9 cdf), sicché risponde deontologicamente del contenuto dei propri atti, quand'anche suggeritogli o richiestogli da terzi (nella specie, il cliente, per reagire ad una provocazione di controparte), giacché il dovere di difesa non giustifica la commissione di illeciti deontologici a pretesa tutela del cliente".

Quanto al dovere di segreto e riserbo, "anche dopo la cessazione dell'incarico per qualsiasi causa, l'avvocato è tenuto a mantenere il segreto ed il massimo riserbo sull'attivita" prestata e sulle informazioni di cui sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato ex art. 28 cdf, tanto nei confronti del cliente quanto della parte assistita". Tale obbligo, conclude il CNF, "prescinde dall'eventuale conoscenza dei fatti da parte dei soggetti ai quali gli stessi vengono riferiti (nella specie, le controparti di un processo)".


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