Data: 28/06/2024 06:00:00 - Autore: Anna Zaccagno

L'interpretazione del concetto di "maltrattamenti"

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Il codice penale all'art. 572 disciplina il delitto di "Maltrattamenti contro familiari e conviventi", che recita come segue:

"Chiunque fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.

La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi.

Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.

Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato".

Qualunque vicenda carica di disvalore penale pertanto posta in essere all'interno delle 'mura di convivenza domestica' - indipendentemente dal rapporto di 'coniugio formalizzato' - integra gli estremi del reato di 'maltrattamenti contro familiari e conviventi' ex art. 572 c.p.

L'interpretazione del 'concetto di maltrattamenti' è stata affrontata più volte dai Capitolini attraverso una già 'corposa scia' di sentenze volte a delinearne i contorni.

In merito al dettame normativo dell'articolo in oggetto infatti la Suprema Corte è intervenuta di frequente per tracciare una linea aderente all'intenzione del legislatore; e per dare quindi un'interpretazione omogenea e coerente alle varie decisioni di merito che hanno riguardato, nelle "sue varie forme" l'articolo 572 c.p.

Il restyling legislativo

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L'articolo, tra l'altro, è stato rivisitato più volte dall'organo legislativo proprio per colmare le 'mancanze empiriche' della 'prima stesura': dovendo, appunto, lo stesso legislatore ricorrere al deterrente dell'inasprimento della cornice edittale inizialmente prevista e, al tempo stesso, dovendo cercare di non lasciare scoperta alcuna facciata dell'aspetto empirico, cercando di elevare l'astrattezza della norma penale al punto da dare una copertura più ampia possibile alle 'diverse sfumature' delle condotte lesive che si possono instaurare nell'ambito della "convivenza domestica". Quest'ultima, estesa pure alla c.d. convivenza more uxorio, non richiedendo più la norma necessariamente un "legame di coniugio" ma appellandosi espressamente ora anche alla 'mera convivenza'.

La giurisprudenza della Cassazione

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In merito, la VI Sez. pen. della Cassazione con sentenza n. 30129/2021 approfondisce e chiarisce inoltre che i maltrattamenti in famiglia si possono consumare anche in assenza di convivenza in quanto l'abitualità può rinvenirsi quando c'è persistenza nelle condotte vessatorie, e si può quindi instaurare anche al di fuori della 'convivenza fisica' qualora vi sia comunque un "rapporto di stabile frequentazione e di solidarietà soprattutto allorché dovute alle comuni esigenze di accudimento e di educazione dei figli".

Tra le altre pronunce di legittimità 'maggiormente indicative' c'è la sentenza n. 34351/2020 con cui la S.C. si sofferma sulla qualificazione delle espressioni verbali pronunciate dal soggetto attivo nei confronti della moglie, espressioni verbali violente al punto da materializzare il reato de quo.

La Corte nello specifico infatti, con la suindicata sentenza, precisa che anche i 'semplici appellativi' come "brutta e grassa" ripetutamente rivolti alla moglie integrano la fattispecie in esame.

Le vicende cui fa riferimento la sentenza del 2020, avvenivano all'interno dello scenario della vita familiare: teatro in cui si svolgevano appunto gli episodi denigratori posti in essere nei confronti della moglie, da parte del marito.

La S.C. sostiene che si inquadrano nel "concetto di prevaricazione" e quindi di maltrattamenti anche gli appellativi come "sei una scrofa, quanto sei brutta, copriti, fai schifo, sei grassa, dovrei cambiare le porte perché non ci entri più, tra dieci anni ti cambio con una più giovane e più bella", pronunciati dal ricorrente del caso sottoposto all'attenzione della Corte.

Espressioni denigratorie, attestanti la prevaricazione, che sono idonee ad integrare gli estremi richiesti dall'art. 572 c.p. quando poste in essere nella "quotidianità della vita coniugale e non solo nel corso di litigi", e pertanto occasionalmente.

Nello stesso contesto, la S.C. sottolinea che i maltrattamenti si integrano anche nel "far mancare alla persona offesa i mezzi finanziari necessari per l'acquisto di beni di prima necessità".

Quindi continua decisa la Corte - nell'esame del caso sottoposto al suo giudizio - affermando che si consuma il reato ex art. 572 c.p. quando ricorre la "sottoposizione del familiare ad una serie di sofferenze fisiche e morali che, isolatamente considerate, potrebbero anche non costituire reato, (ex multis Sez. 6, n. 9923 del 05/12/2011) accompagnata, sotto il profilo soggettivo, dalla coscienza e volontà dell'agente di porre in essere siffatti atti vessatori".

Il merito all'elemento soggettivo di 'risonanza più recente' è la sentenza della VI sez. pen. della Cassazione, n. 8617 del 27 febbraio 2024, con cui gli Ermellini ricordano che l'art. 572 è un reato a dolo generico, quindi per realizzarlo è sufficiente "la consapevolezza dell'agente di persistere in un'attività vessatoria" (cfr. n. 1508 del 16/10/2018)".

E ancora nel merito, la S.C. - con tale sentenza (n. 8617 cit.) - condivide pienamente, e si associa pertanto alla soluzione della Corte Territoriale che aveva esaminato il caso nel merito, secondo cui "il reato di maltrattamenti in famiglia ben può essere commesso anche imponendo ai familiari – nel caso di specie i figli minori di età – un regime di vita connotato non solo dal frequente ricorso a violenze fisiche, ma più in generale improntato a un generale degrado nell'accudimento". Ribadendo, altresì, che il reato di maltrattamenti può essere commesso anche "in forma omissiva, lì dove il genitore non provveda ad assicurare al minore, specie se in tenera età, tutte quelle condotte di cura, assistenza e protezione a fronte di esigenze cui il minore non può altrimenti provvedere". Continua la S.C., con sent. 8617/2024, puntualizzando che "la reiterazione nel ricorso alla violenza nei rapporti con i figli, nonché l'abituale deficit di accudimento emerso, sono elementi di per sé dimostrativi della reiterazione di condotte idonee ad integrare il reato di maltrattamenti in famiglia, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo del reato".

Di conseguenza si può affermare - richiamando ancora la giurisprudenza - che non si viola l'art. 572 se gli atti commissivi od omissivi sono "isolatamente considerati": le condotte isolate infatti "potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica) ovvero non perseguibili (ingiurie, percosse o minacce lievi – procedibili solo a querela), ma acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo" (cfr. Cass. n. 5258/2016).

Ripetitività e abitualità

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Seppur nelle molteplici pieghe in cui possono articolarsi le condotte della fattispecie de qua, emerge, in sintesi e concludendo, una linea interpretativa marcata, ferma che accomuna e riguarda pertanto tutti i comportamenti dotati di disvalore penale; comportamenti che assumono rilevanza penale sfociando nell'art. 572 c.p., soltanto se 'avvengono nella reiterazione', ovvero nella "ripetitività ed abitualità".

"Ripetitività ed abitualità" del paradigma dei comportamenti lesivi quindi quale presupposto necessario per materializzare l'art. 572 c.p.


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