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Data: 14/09/2024 06:00:00 - Autore: Andrea Cagliero
La quaestio iuris[Torna su] Il Tribunale di Lecce applicava su richiesta delle parti, ex art. 444 c.p.p., al netto della riconosciuta continuazione e della recidiva, la pena di anni due e mesi quattro di reclusione nei confronti di un imprenditore in relazione al reato di bancarotta fraudolenta. Il Giudice applicava, altresì, la pena accessoria dell'inabilità ad esercitare un'impresa commerciale e dell'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso un'impresa per la durata di anni cinque. Avverso la sentenza, proponeva ricorso per cassazione l'imputato, lamentando inosservanza della legge penale con riferimento alla calibrazione della durata della pena accessoria, che non ha formato oggetto di accordo tra le parti, di cui all'art. 216 ultimo comma R.D. 267/1942, significativamente superiore alla pena principale, in carenza totale di motivazione. Le pene accessorie di cui all'art. 216 R.D. 267/1942[Torna su] Nella sua formulazione originaria, la pena accessoria, dell'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e dell'incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, era stabilita nella misura fissa di anni dieci. Come è ben noto, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 222/2018, ha dichiarato illegittimo l'art. 216 L. fall., nella parte in cui stabilisce la durata della pena accessoria nel tempo fisso di dieci anni, anziché "fino a dieci anni", dando così ragionevolmente potere al giudicante di dosare la sanzione a seconda della gravità del caso specifico e, di conseguenza, rispondendo maggiormente ai canoni costituzionali di proporzionalità della pena. La risposta della Corte di cassazione[Torna su] La Corte di legittimità (Cass. Pen., Sez. V, ud. 23-05-2024, 06-09-2024, n. 34006), pur riconoscendo l'ammissibilità del ricorso, in quanto concernente una parte del dispositivo estraneo all'accordo tra le parti, non lo ha ritenuto fondato. Dopo un rapido excursus della sentenza costituzionale sopra menzionata, la Cassazione ha ricordato che le Sezioni Unite, con la sentenza n. 28910/2019, hanno risolto il contrasto giurisprudenziale inerente proprio al rapporto tra pena principale e quella accessoria. Invero, la prima svolge funzioni retributive, preventive di carattere generale e speciale, nonché rieducative mediante la sottoposizione al trattamento orientato al graduale reinserimento sociale del condannato; la seconda, specie quella di natura interdittiva ed inabilitativa, collegata al compimento di condotte postulanti lo svolgimento di determinati incarichi o attività, è più marcatamente orientata a fini di prevenzione speciale, oltre che di rieducazione personale, che realizza mediante il forzato allontanamento del reo dal medesimo contesto operativo, professionale, economico e sociale, nel quale sono maturati i fatti criminosi e dallo stimolo alla violazione dei precetti penali per impedirgli di reiterare reati in futuro e per sortirne l'emenda. Per tali differenti finalità, la pena accessoria non deve necessariamente riprodurre l'entità di quella principale. Venendo così al caso di specie, il Giudice delle leggi non ha ravvisato alcune violazione della legge, dal momento che il Tribunale aveva esaustivamente motivato le ragioni a fondamento della pena accessoria, rimarcando la gravità dell'illecito e la personalità del suo autore.
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