Data: 17/09/2024 06:00:00 - Autore: United Lawyers for Freedom – ALI Avvocati Liberi

La Corte UE conferma la multa a Google e ad Alphabet

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La Corte Ue, con sentenza del 10 settembre 2024 nella causa C-48/22 P, ha confermato l'ammenda di 2,4 miliardi di euro inflitta a Google (ed alla controllante al 100% Alphabet) per aver abusato della propria posizione dominante favorendo il suo servizio di comparazione di prodotti.

Google è principalmente nota per il suo motore di ricerca, che consente agli utenti di Internet di trovare e di raggiungere, mediante collegamenti ipertestuali, i siti Internet che rispondono alle proprie esigenze.

I risultati delle ricerche degli utenti dovrebbero essere selezionati dal motore secondo criteri di «ricerca generale» senza che i siti ai quali essi rinviano remunerino il motore per apparire, oppure secondo criteri di «ricerca specializzata» di notizie, informazioni e offerte commerciali, per i viaggi aerei o per l'acquisto di prodotti anche attraverso la comparazione e la selezione delle offerte di venditori su Internet che propongono il prodotto cercato.

Quest'ultima categoria è stata in discussione nella sentenza in commento, che ha operato una chiara ricostruzione "tecnica" del funzionamento del motore di ricerca di Google prima di decidere secondo diritto.

La vicenda

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Da un punto di vista tecnico, come detto, l'ordine di presentazione nelle pagine di ricerca dei risultati detti «naturali» dovrebbe essere indipendente da pagamenti, a differenza di quei risultati che appaiano nelle pagine del motore di ricerca, comunemente denominati «annunci sponsorizzati», che sono invece collegati a pagamenti effettuati dai siti Internet cui essi rinviano.

I servizi di comparazione di prodotti sono stati inizialmente forniti (dal 2001) da Google tramite una pagina di ricerca specializzata, denominata Froogle, fisicamente distinta dalla pagina di ricerca generale del motore di ricerca, salvo poi abbandonare (dal 2005) la denominazione Froogle per adottare quella di Product Searched inserire gli annunci sponsorizzati nella pagina di ricerca generale tramite raggruppamenti c.d. «Product OneBox», affiancati alle pubblicità nella parte alta o a lato della pagina e al di sopra dei risultati di ricerca generali.

A partire dal mese di novembre 2011 in Europa, Google ha completato tale meccanismo con la presentazione diretta, nelle sue pagine di risultati generali, di gruppi di «annunci per prodotti» di diversi inserzionisti, con fotografie e prezzi, ribattezzati «Shopping Units» dal 2013, che rinviavano l'utente che cliccava su uno di quei link al sito Internet di vendita dell'inserzionista.

Secondo la sentenza in commento, nello stesso momento in cui Google ha soppresso la Product Search avrebbe scientemente rinunciato a presentare risultati naturali per prodotti nella sua pagina di risultati specializzata, facendo apparire una pagina contenente solo annunci, denominata «Google Shopping» (pag. 4 pto. 13).

L'avvio del procedimento di infrazione

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Alla luce di tanto, già dal 2010 la Commissione europea avviava un procedimento di infrazione degli articoli [101] e [102] TFUE nei confronti di Google (nel 2016 esteso contro Alphabet) ai sensi dell'articolo 2, paragrafo 1, del Regolamento (CE) 7 aprile 2004 n. 773 della Commissione, che si concludeva il 27 giugno 2017 con la dichiarazione che le pratiche di Google sopra descritte costituivano un abuso di posizione dominante del mercato dei servizi di ricerca generale su Internet e del mercato dei servizi di comparazione di prodotti su Internet e, per l'effetto, irrogava a Google un'ammenda di EUR 2.424.495.000 (di cui EUR 523.518.000 in solido con Alphabet).

Più in particolare la Commissione riteneva che Google avesse abusato, a partire dal 2008, della sua posizione dominante in tredici mercati nazionali (Belgio, Repubblica ceca, Danimarca, Germania, Spagna, Francia, Italia, Paesi Bassi, Austria, Polonia, Svezia, Regno Unito e Norvegia), riducendo il traffico di risultati di prodotti concorrenti e aumentando tale traffico verso il proprio comparatore di prodotti, il che poteva avere (o aveva verosimilmente avuto) effetti anticoncorrenziali sui rispettivi mercati nazionali della ricerca specializzata per la comparazione di prodotti.

In buona sostanza, l'abuso consisteva nel posizionamento e nella presentazione più favorevole, all'interno delle pagine di risultati generali di Google, del proprio comparatore di prodotti rispetto ai comparatori di prodotti concorrenti; cioè Google mostrava nelle sue pagine il proprio comparatore in modo preminente e attraente in «boxes» dedicati, senza applicare ad esso gli algoritmi di «aggiustamento» applicati invece all'utenza, i cui risultati invece apparivano solo sotto forma di risultati di ricerca generale (link blu), e mai in un formato arricchito e ammiccante, restando peraltro soggetti a retrocessione nell'elenco dei risultati per opera degli algoritmi di "aggiustamento".

Con atto dell'11 settembre 2017 Google proponeva ricorso al Tribunale dell'UE per l'annullamento o per la riduzione dell'importo dell'ammenda ricevuta, che veniva respinto con decisione del luglio 2019 sebbene fosse stata annullata parzialmente la decisione della Commissione nella parte in cui si configurava la violazione del divieto di abuso di posizione dominante del mercato della ricerca generale, ritenendo il Tribunale che non fossero stati dimostrati gli effetti anticoncorrenziali, anche solo potenziali, della pratica di Google sul tale mercato.

Il ricorso di Google e Alphabet e la decisione della Corte UE

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Sia Google sia Alphabet proponevano impugnazione dinanzi alla Corte dell'UE, mediante la quale chiedevano l'annullamento della sentenza del Tribunale nella parte in cui non aveva annullato la decisione della Commissione e la relativa sanzione pecuniaria inflitta.

L'impugnazione era affidata ad una serie di motivi che la Corte ha puntualmente preso in esame e, altrettanto puntualmente, respinto.

Con un primo motivo i ricorrenti lamentavano l'error in iuedicando sul criterio giuridico utilizzato dal Tribunale per valutare l'esistenza di un abuso di posizione dominante, in difformità del noto precedente di cui alla sentenza del 26 novembre 1998, Bronner C"7/97, EU:C:1998:569 (che trattava essenzialmente di un rifiuto di fornitura di servizi in un'infrastruttura che essa aveva sviluppato per le esigenze della propria attività).

A parere della Corte, invece, le pratiche di Google oggetto di scrutinio si differenziavano nei loro elementi costitutivi dalle questioni decise dalla sentenza del 26 novembre 1998 Bronner, poiché la pratica di Google consisteva in un comportamento autonomo che, pur potendo presentare gli stessi effetti di esclusione, si distingueva, nei suoi elementi costitutivi, dal rifiuto di fornitura in senso stretto, il che giustificava la decisione di considerare le contestazioni mosse nel caso di specie nell'ottica di condizioni diverse da quelle rilevate nella sentenza Bronner (ove veniva in evidenza una ipotesi di rifiuto espresso di fornitura) che si differenziavano da tutte quelle condotte che non rifiutavano bensì sottoponevano la fornitura di beni o servizi a condizioni svantaggiose rispetto ad altri soggetti concorrenti.

In diversi termini, l'Autorità giudiziaria europea ha ritenuto che Google non si fosse limitato ad un semplice rifiuto unilaterale di fornire alle imprese concorrenti un servizio necessario per esercitare una concorrenza su un mercato, bensì abbia riservato loro una differenza di trattamento contraria all'articolo 102 TFUE, in quanto le pratiche controverse presentavano un carattere «attivo» che si traduceva in atti positivi di discriminazione tra il servizio di comparazione di prodotti di sponsorizzati da Google e i servizi di comparazione di prodotti concorrenti non sponsorizzati.

Su tale particolare aspetto la difesa di Google si era lungamente soffermata lamentando che la decisione della Commissione le avrebbe imposto, in sostanza, di trasferire un attivo di valore, ossia uno spazio assegnato ai risultati di ricerca a beneficio di soggetti potenzialmente non qualificati o non meritevoli, ma anche tale argomento era smentito dalla decisione in commento poiché l'articolo 102 TFUE vieta lo sfruttamento abusivo, da parte di una o più imprese, di una posizione dominante sul mercato interno o in una parte sostanziale di esso.

Lo scopo di tale articolo è quello di evitare che venga pregiudicata la concorrenza a scapito dell'interesse generale, delle singole imprese e dei consumatori, attraverso il ricorso a mezzi diversi da quelli che regolano la concorrenza tra le imprese, e che ostacolano il mantenimento del grado di concorrenza esistente sul mercato o lo sviluppo di tale concorrenza, oppure reprimono o limitano la concorrenza basata sui meriti e sono quindi suscettibili di arrecare un danno diretto a detti soggetti, oppure ancora che impediscono o falsano tale concorrenza e sono quindi suscettibili di arrecare ai predetti un danno indiretto (sentenza del 21 dicembre 2023, European Superleague Company, C"333/21, EU:C:2023:1011).

Infatti, un'impresa dominante non potrebbe essere accusata di abusare della propria posizione per il solo fatto di essersi rifiutata di contrattare con un concorrente poiché, in siffatte ipotesi, un obbligo a contrarre con il concorrente sarebbe particolarmente lesivo della libertà e del diritto di proprietà dell'impresa stessa, dal momento che un'impresa, anche dominante, resta, in linea di principio, libera di rifiutarsi di contrattare e di sfruttare l'infrastruttura da essa sviluppata per le proprie esigenze (sentenza del 25 marzo 2021, Deutsche Telekom/Commissione, C"152/19 P, EU:C:2021:238, punto 46).

Preso atto di tali presupposti, nella decisione in commento si contestava non certo la violazione di un obbligo a contrarre o somministrare una fornitura, quanto piuttosto una «differenza di trattamento» delle condizioni di fornitura del servizio di ricerca generale di Google ove «i risultati dei comparatori concorrenti, quand'anche siano particolarmente pertinenti per gli utenti di Internet, non possono mai beneficiare di un trattamento analogo a quello dei risultati del comparatore di Google, che si tratti del livello del loro posizionamento, in quanto, per le loro stesse caratteristiche, tendono ad essere retrocessi dagli algoritmi di aggiustamento e in quanto le "boxes" sono riservate ai risultati del comparatore di Google, oppure della loro presentazione, dato che i caratteri arricchiti e le immagini sono anch'essi riservati al comparatore di Google».

Collegato a questo argomento è il secondo motivo di doglianza di Google che ha contestato di svolgere una concorrenza basata sui meriti e che la sua posizione di impresa «superdominante» non poteva essere presa in considerazione nella valutazione del comportamento alla luce dell'art. 102 TFUE che, ricordiamo, sancisce la regola della parità di trattamento dei fornitori di accesso a Internet prevista dal Regolamento (UE) 2015/2120 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2015, a modifica della Direttiva 2002/22/CE relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica e del Regolamento (UE) n. 531/2012 relativo al roaming sulle reti pubbliche di comunicazioni mobili all'interno dell'Unione (GU 2015, L 310, pag. 1).

Secondo il colosso statunitense, qualificare Google come «superdominante» o come «porta di accesso ad Internet» non avrebbe consentito la possibilità di estendere l'applicazione della regola di parità di trattamento in modo da introdurre obblighi più ampi rispetto a quelli di cui articolo 102 TFUE, anche perché sarebbe del tutto normale e fisiologico che un servizio di ricerca agisca unicamente in quanto produttore dei propri risultati -basati sui suoi dati e sui suoi algoritmi- e mostri pertanto solo i propri risultati e, ciò, non potrebbe essere ritenuto come discriminatorio per tutti i risultati non esposti od esposti in maniera diversa, anche alla luce del noto principio secondo cui applicare un trattamento differente non integra una discriminazione quando i casi concreti di riferimento siano differenti tra loro.

Nel rispondere a questa obiezione la Corte ha ricordato che l'articolo 102 TFUE non mira né ad impedire alle imprese di conquistare, grazie ai loro meriti, una posizione dominante su uno o più mercati, né a garantire che rimangano sul mercato imprese concorrenti meno efficaci di quelle che detengono una siffatta posizione, quindi sanziona non già l'esistenza stessa di una posizione dominante, ma solo lo sfruttamento abusivo di quest'ultima (sentenza del 21 dicembre 2023, European Superleague Company, C"333/21, EU:C:2023:1011).

La Corte ha precisato che «per poter ritenere, in un determinato caso, che un comportamento debba essere classificato come «sfruttamento abusivo di una posizione dominante» ai sensi dell'articolo 102 TFUE, è necessario, per regola generale, dimostrare che, ricorrendo a mezzi diversi da quelli che regolano la concorrenza basata sui meriti tra le imprese, tale comportamento ha come effetto concreto o potenziale di limitare la concorrenza, escludendo imprese concorrenti altrettanto efficaci dal mercato o dai mercati interessati, o impedendo il loro sviluppo su tali mercati, fermo restando che questi ultimi possono essere sia quelli in cui è detenuta la posizione dominante, sia quelli, collegati o vicini, in cui detto comportamento è destinato a produrre i suoi effetti concreti o potenziali» (sentenza del 21 dicembre 2023, European Superleague Company, C"333/21, EU:C:2023:1011, punto 129).

Perciò, al di là dei soli comportamenti che hanno per effetto, concreto o potenziale, di restringere la concorrenza basata sui meriti -estromettendo imprese concorrenti parimenti efficaci dal mercato o dai mercati interessati- possono essere qualificati come «sfruttamento abusivo di una posizione dominante anche comportamenti che hanno come effetto concreto o potenziale quello di impedire ad imprese potenzialmente concorrenti anche solo di accedere al mercato e, in tal modo, di impedire lo sviluppo della concorrenza su questi mercati a danno dei consumatori, limitando negli stessi la produzione, lo sviluppo di prodotti o di servizi alternativi, od anche l'innovazione» (così ancora la sentenza European Superleague Company, C"333/21, cit., punto 131).

Se questi sono i principi di diritto informatori della materia, le condotte contestate ai ricorrenti dovevano essere considerate pratiche abusive, dal momento che esse, per il loro utilizzo combinato, erano idonee ad alimentare il rischio concreto di potenziali effetti di esclusione sul mercato a valle -ossia quello della ricerca specializzata per la comparazione di prodotti- nonché la supremazia della comparazione dei prodotti di Google su tale mercato, il cui posizionamento non era dovuto a meriti bensì alle stesse pratiche che turbavano e curvavano, in un uso combinato, una leale concorrenza.

Nemmeno coglieva nel segno la doglianza dei ricorrenti in ordine alla mancata prova del nesso di causalità tra il comportamento contestato e la riduzione del traffico dalle pagine di risultati generali di Google verso i comparatori di prodotti concorrenti.

Google rivendicava il potere di estromettere un concorrente e pretendeva la prova numerica e qualificata di una effettiva riduzione del traffico e di accesso al mercato dei risultati che fossero eziologicamente conseguenza della propria pratica, poiché a suo dire la Commissione avrebbe proceduto solo all'analisi prognostica degli effetti che avrebbe potuto avere il comportamento contestato in termini di potenzialità anticoncorrenziale in grado di incidere sulla struttura concorrenziale dei mercati interessati.

La sentenza in commento, però, contestava a Google l'inesistenza di elementi di prova, mai forniti nemmeno dalla stessa parte, in ordine al fatto che il suo comportamento non avrebbe avuto la capacità di restringere la concorrenza e, in particolare, di produrre gli effetti estromissivi addebitati, a fronte invece della ricorrenza di una strategia volta ad estromettere i concorrenti almeno altrettanto efficaci (v., in tal senso, sentenza del 6 settembre 2017, Intel/Commissione, C"413/14 P, EU:C:2017:632).

In questo senso l'abuso era consistito nel posizionamento e nella presentazione più favorevoli che Google riservava, nelle pagine del suo motore di ricerca generale, al proprio comparatore di prodotti rispetto ai comparatori di prodotti concorrenti e, pertanto, visto che la misura in cui la capacità di un comparatore di prodotti di competere dipendeva dal traffico dei risultati, tale comportamento discriminatorio di Google aveva avuto un impatto significativo sulla concorrenza in quanto aveva consentito a tale società di sviare, a beneficio del proprio comparatore di prodotti, un'ampia parte del traffico precedentemente esistente tra le pagine di risultati generali di Google e i comparatori di prodotti appartenenti ai suoi concorrenti, senza che questi ultimi potessero compensare tale perdita di traffico con il ricorso ad altre fonti di traffico, poiché un maggiore investimento in fonti alternative non avrebbe costituito una soluzione «economicamente sostenibile».

In definitiva venivano in rilievo gli effetti potenziali della pratica e non invece quelli reali, e cioè l'esistenza di un mero rischio che i comparatori di prodotti concorrenti cessassero le loro attività o fossero limitati nell'innovazione e nella possibilità dei consumatori di accedere ai servizi più efficienti, ma non che tali effetti si fossero effettivamente verificati o il grado in cui si sarebbero verificati, in ragione del fatto che il diritto dell'Unione sanziona non l'esistenza stessa di una posizione dominante, bensì soltanto lo sfruttamento abusivo di quest'ultima.


* A cura dell'Avv. Angelo Di Lorenzo presidente Avvocati Liberi


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