Data: 22/04/2008 - Autore: Silvia Vagnoni
Quella analizzata in una recente sentenza della Corte di Cassazione sezione penale (n. 10795/2008) è la vicenda di uno psichiatra condannato per aver trascurato i sintomi di aggressività manifestati da un paziente psicotico che, ricoverato all'interno di una comunità terapeutica, aggrediva con un coltello un operatore che prestava servizio nella struttura cagionandone la morte.
Nella lunga pronuncia la Corte interviene prima sul concetto di posizione di garanzia, negata dallo psichiatra, stabilendo che "una posizione di garanzia del medico può sorgere esclusivamente con l'instaurazione della relazione terapeutica tra il paziente e il professionista. Questa relazione si può instaurare su base contrattuale – come avviene nel caso di paziente che si affidi al medico di fiducia – ma anche in base alla normativa pubblicistica di tutela della salute come avviene nel caso di ricovero ospedaliero o in strutture protette; casi nei quali per il medico, indipendentemente dal consenso del paziente, sorge un obbligo giuridico di impedire l'evento. (…) Quale che fosse l'incarico formalmente attribuito allo psichiatra all'interno della comunità egli ha di fatto svolto la funzione di tutelare la salute psichica del paziente ed ha accettato di svolgere questo incarico che dunque trova la sua origine in un vincolo contrattuale che la struttura gli ha conferito l'incarico e in un vincolo normativo conseguente all'instaurazione di una relazione terapeutica con il paziente".
Quanto al trattamento sanitario obbligatorio, premesso che "il medesimo può essere disposto nei confronti delle persone affette da malattie mentali in presenza di questi presupposti: 1) che esistano alterazioni psicologiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; 2) che gli stessi non vengano accettati dall'infermo; 3) che non sia possibile adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere", la Corte chiarisce che "il trattamento sanitario obbligatorio deve essere disposto anche nel caso in cui la malattia si manifesti con atteggiamenti di aggressività verso terzi non diversamente contenibili. Del resto non si comprende quali possano essere le alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici se non le manifestazioni di aggressività nei confronti di se stessi o di terzi. Se non esistono queste manifestazioni, ma altre espressioni della sofferenza psichica, è ben difficile ipotizzare situazioni nelle quali sia necessario un contenimento anche fisico in ambito ospedaliero".
Per quanto attiene, infine, gli elementi di colpa ravvisabili nella condotta dello psichiatra e consistenti nella drastica riduzione e successiva eliminazione della terapia farmacologia in precedenza assunta dal paziente, la Corte, che ha confermato la condanna del sanitario, precisa che "va premesso che non è in discussione la libertà delle scelte terapeutiche del medico che deve indirizzarle anzitutto al miglioramento del benessere del paziente e alla riduzione degli effetti collaterali della somministrazione dei farmaci; ma questa condivisibile finalità deve essere perseguita con la gradualità e l'attenzione richieste in relazione alla gravità della situazione patologica del paziente. E tenendo conto che la richiesta del paziente può essere ricollegata, come nel caso di specie, ad un mancato riconoscimento della malattia da parte sua".
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