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Data: 06/11/2008 18:00:00 - Autore: Roberto Cataldi A seguito della notizia relativa alla citazione diretta a giudizio disposta dal PM di Milano nei confronti di 4 dirigenti Google un portavoce del Gruppo ha espresso il suo disappunto per una iniziativa che appare non solo incomprensibile ma che rischia di creare un precedente preoccupante. E la preoccupazione non è solo del più grande motore di ricerca del mondo. Come si legge in un articolo del Punto Informatico, “il precedente temuto da Google preoccupa anche gli utenti: qualora il processo portasse ad una condanna dei dirigenti dell'azienda, a rischio sarebbero da subito numerosissimi servizi oggi liberamente utilizzati da milioni di italiani. Lo stesso YouTube, il portalone di video sharing gestito da Google, potrebbe trovarsi in cattive acque. D'altra parte, spiega ancora il Punto-Informatico, “se impedire la pubblicazione di un certo videoclip musicale o del brano di un film per ragioni di diritti d'autore puo' rivelarsi un compito alla portata di evolute tecnologie di filtering, ostacolare la pubblicazione di un video diffamante è tutto un altro paio di maniche. E questo – continua il noto quotidiano di Internet - “non tanto perché la diffamazione può non essere palese nel video stesso, e dunque non riconosciuta, ma perché filtrare richiederebbe la 'visione informata' di tutto ciò che viene caricato sul servizio da parte di un umano, un compito totalmente incompatibile con la quantità di materiale che circola sui moderni portali di sharing dei contenuti”. La citazione a giudizio dei 4 manager per concorso in diffamazione e violazione delle norme sulla privacy si riferisce ad un video mandato 'in rete' nel settembre del 2006 nel quale un ragazzo disabile veniva sbeffeggiato dai compagni. Ciò che non appare condivisibile, spiega il portavoce di Google è “la tesi secondo cui lo strumento e' corresponsabile dell'utilizzo che ne viene fatto. Anche per questo, crediamo fermamente che il procedimento riguardi non tanto Google, quanto la natura di Internet: un ambiente libero e aperto, del quale ciascuno di noi puo' contribuire alla crescita e alla tutela, ma che non puo' essere imbrigliato o censurato". La questione in effetti rischia di minare le basi dei principi che regolano la rete soprattutto per quanto riguarda quelle comunità virtuali in cui gli strumenti informatici sono nelle mani degli utenti. Pensiamo alla quantità impressionante di forum, newsgroup e chat che popolano la rete. In queste “assemblee virtuali” si discute, ci si confronta, si esprimono idee liberamente e può certamente accadere che qualcuno commetta reati anche semplicemente con l'uso delle parole. Non che non sia possibile un intervento, ma questo intervento non può che essere a posteriori. Vale la pena ricordare, in merito, quanto affermato in una sentenza del Tribunale di Roma (4-7-98) che, in un procedimento presentato con ricorso avverso l'autore di un messaggio di posta elettronica ritenuto offensivo, ha dichiarato il difetto di legittimazione passiva del news-server “che si sia limitato a mettere a disposizione degli utenti uno spazio virtuale deputato ad ospitare i loro messaggi, quando, trattandosi di un newsgroup non moderato, non abbia alcun potere di controllo e vigilanza sugli interventi che vengono inseriti”. Dello stesso avviso il Tribunale di Lucca che, nel decidere sul ricorso di una Società che si era sentita offesa da alcuni messaggi comparsi un un newsgroup, ha escluso la responsabilità civile dell'operatore che ha consentito l'accesso al newsgroup stesso. Nella parte motiva della sentenza il Tribunale chiarisce che “diversamente si verrebbe ad introdurre una nuova ed inaccettabile ipotesi di responsabilità oggettiva, in aperta violazione alla regola generale di cui all'art. 2043 c.c. che, come è noto, fonda la responsabilità civile sulla colpa del danneggiante”. Il fatto è che se si afferma che il titolare di quello che è solamente uno “strumento di diffusione di contenuti” è addirittura penalmente responsabile per concorso con chi abbia commesso reati attraverso l'utilizzo di tale strumento si rischia di stravolgere principi logici prima ancora che giuridici. Sarebbe come affermare che il produttore di un coltello è responsabile penalmente nel caso in cui taluno lo abbia utilizzato per uccidere. Bisognerebbe oltretutto interrogarsi su come sia stato preso in considerazione e valutato l'elemento soggettivo del reato ossia la coscienza e la volontà di commettere un fatto penalmente rilevante. Nella nota del portavoce di Google, ad ogni buon conto, si ribadisce la solidarieta' alla famiglia del ragazzo e alla associazione Vividown. “Rammentiamo – prosegue la nota - che Google e' da tempo impegnata al fianco delle istituzioni e di molte associazioni al fine di diffondere e alimentare una corretta cultura di Internet. Ci preme infine ricordare che e' grazie alla nostra collaborazione con le forze dell'ordine che i protagonisti del video incriminato sono stati individuati e puniti". |
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