Data: 06/05/2010 10:00:00 - Autore: Paolo Storani

In questi giorni capita di imbattersi nell'offerta della seguente tipologia di servizi: "riconsulenza legale".

Si propongono pareri di "fattibilità" (termine bello ma fuori luogo in un campo che non sia tecnica, ingegneria) in previsione dell'instaurazione di processi e si è, quindi, disponibili a correggere atti giudiziari di altri avvocati.

Se questo è davvero l'esatto concetto cui ricollegare la definizione di "riconsulenza legale", posso affermare (non so con quanto orgoglio, ma un confronto non si nega a nessuno) che nella mia vita ho svolto assiduamente anche l'attività di "riconsulente".

Ricordate il film napoletano scritto e diretto da Luciano De Crescenzo in cui un tale che, avanti ad un tg che aveva appena descritto l'operazione antidroga delle "unità cinofile", una volta acquisita l'illuminante spiegazione del Professor Bellavista, si meravigliava di possedere, senza saperlo, pure lui in casa un'unità cinofila, cioè un cane.

Buffo come la nostra lingua venga assoggettata a continui stravolgimenti e forzature che nulla hanno a vedere con l'introduzione di vocaboli utili.

Per utili mi riferisco a termini che denotano proprietà lessicale di settore e che sono strettamente necessari alla vitalità del dizionario, ormai stracolmo di anglismi e di prestiti linguistici indispensabili.

Gli anglismi talora hanno arricchito moltissimo il vocabolario della lingua italiana.

Del resto, faremmo una gran fatica ad arrabattarci con l'italica "privatezza" se non potessimo giovarci della comodità del meraviglioso (ora, però, abusato) vocabolo di "privacy".

Ho un'autentica passione per l'espressione "on the road" e me ne frego dell'alternativa italiana che mi richiama il marciapiedi.

Come rinunciare al "confort": nomen omen! "Welfare": non potrei farne a meno e mando al demonio "stato sociale" che non trovo preciso.

Anche "border line" a me piace assai, come pure "exit strategy".

Però, ai nostri congressi troppo spesso si ricorre all'inglese abusandone.

Sulla mediazione ai fini della conciliazione tutti quei frasari di matrice anglo-americana andrebbero calati nella nostra realtà mediterranea.

La neolingua è un'antilingua e scade nel burocratese.

L'apice si tocca con la pronuncia inglese della frase latina; e cosi "stare decisis", principio generale dei sistemi di common law, diventa un abominevole "steir desaisis"! Toccò ad un esterrefatto Dott.

Giovanni Battista PETTI correggere con stentoreo sdegno il giovane relatore di un convegno tenutosi in Abruzzo che presiedeva.

Che dire della pronuncia da parte di un altro studioso italiano per "par condicio", anglofilizzato in "per condaisio".

Parossisticamente io detesto pure "conditio" che secondo me era un condimento, oggi diremmo un ragù, un sughetto, anche se non ci metto la mano sul fuoco non essendo un filologo.

CURIALE AVVOCATESCO: a me dà anche un po' fastidio la ricorrenza negli atti giudiziari di espressioni di origine latina che non servono a nulla nel contesto in cui vengono collocate se non a dimostrare che l'estensore mastica due etti di "latinorum", stivato in chissà quale anfratto della memoria e con reattività neuronale ormai definitivamente compromessa.

Per contro, il giudice si aspetta da noi l'illustrazione sobria e precisa del punto nodale della vicenda: INCISIVITA'.

A me personalmente piace molto il greco, affascinante e misterioso, ma non mi sognerei di infilare il sostantivo "DIKE" nell'atto che tra un minuto comincerò.

E se scrivessi "DOXA" penserebbero ad un istituto demoscopico.

Confesso che talvolta menziono l'AORISTO, ma soltanto per esprimere la carica puntuale dei verbi: all'incirca è il nostro passato remoto; grazie all'aoristo cerco di spiegare come un fatto suscettivo di effetti giuridici si possa verificare una sola volta nella storia (compimento, fatto compiuto) o, invece, può ricorrere più e più volte, come attestato da altre forme verbali come il presente o l'imperfetto.

Quel dato incidente stradale accadde in quelle date condizioni di tempo e di luogo.

In quel modo non accadrà mai più.

Invece, capita (verbo al presente) di continuo che l'Enel mi eroghi l'energia elettrica e capita periodicamente che mi pervenga la rivista giuridica in abbonamento (duratività).

Non cedo alla tentazione di inserire una radice della lingua accadica, ceppo comune da cui deriva la nostra; la tradizione culturale è inchiodata alle teorie fasulle sull'indoeuropeo che ci hanno insegnato a pappagallo.

Ma la lingua indoeuropea non è mai esistita e non è mai stata parlata da nessun individuo, tanto meno da fantomatici cavalieri provenienti dalle steppe e dal Caucaso.

Da costoro, non si sa se "Indi" o "Europei", deriverebbero quasi tutti gli idiomi parlati sul globo e quelli dell'Occidente (inglese, italiano, tedesco).

Boh, forse il ceceno deriva dall'indoeuropeo.

Per contro, i legami tra Europa ed antica Mesopotamia, l'odierno Irak, ove fiorirono le civiltà di Sumer, Akkad e Babilonia, sono confortati da dati storici e filologici inconfutabili; fiorirono così le lingue sumerica, accadica, babilonese ed assira.

Oppure vorrei scrivere nella millenaria lingua genovese di "Creuza de ma" (stradina tra muretti) di Fabrizio De Andrè (e, con l'occasione, riportare pure il versetto fantasmagorico "dal letame nascon i fior").

Senonché, esprimo un concetto scontato: a mio sommesso avviso l'atto giudiziario per il giudice italiano va scritto in lingua italiana ed il ricorso al latino è ammesso quando è indispensabile nel senso che il dizionario italiano non soccorre con altre espressioni.

Assoggettate a severo scrutinio, ci si avvede che gran parte delle frasi latine contenute negli atti degli avvocati italiani sono smaccatamente pleonastiche ed errate.

Prendere l'esempio del "de quo" che va bene se il riferimento è ad un vocabolo maschile, ma dovrebbe trasformarsi in un "de qua" se è femminile.

Il LATINO, espressione di SINTESI estrema, è splendido quando è usato in modo icastico: il giudice, ritenutele ammissibili e rilevanti, ammette le richieste istruttorie "hinc et inde": che bello! Musicale.

Per dirlo in italiano ci vorrebbe quasi una riga intera e comunque una perifrasi.

Anche legge "ad personam" è insostituibile, oppure incarico "ad interim", "prorogatio" e "vacatio".

Humus, referendum, facsimile sono prestiti inesigibili, nel senso che sono ormai espressioni italiane a tutti gli effetti.

Sono affezionato ad "imputet sibi" perché lo trovo contrassegnato da un'enfasi positiva e non stantia.

Mi sentirei orfano senza il concetto di "species" rispetto al "genus".

Capisaldi processuali "causa petendi" e "petitum".

Assertivo ed imaginifico come non mai "ubi societas ibi jus".

Che dire di "ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit"? Ho una venerazione per "vulnus", che adoro pronunciare quando sono adirato.

Cosa sarebbe il diritto ereditario senza "ultra vires"? Talmente bello che ridà vitalità al morto quantunque si tratti solo di reviviscenza di tipo patrimoniale.

Talvolta, però, il riferimento a formule anche italiane appare più il rito di uno sciamano di un racconto di Tiziano Terzani sull'Asia che un lessico munito di una qualche pur recondita utilità.

Penso alle espressioni incredibili e chiesastiche come "ci si segna": è scaramanzia o retaggio di catechismo mal compreso? E perché "ci si segna" alla fine dell'atto legale e non all'inizio, come liturgia e reminiscenza imporrebbero? Si vuol forse ossequiare il giudice prima che sentenzi quasi equiparandolo al divino? Di sicuro l'ermeneutica di equivalente a scrivere "mi firmo, sottoscrivo" è fallace perché l'atto prevede l'obbligatorietà della sottoscrizione.

Sarebbe, dunque, inutile.

A proposito di scritte inutili, il mio caro Amico Avv.

Fausto Lapenna del Foro di Milano, mentre attendevamo disperati, superato il livello di guardia delle ore quattordici, che il giudice chiamasse la nostra complessa causa, mi faceva riflettere sulla drastica affermazione, parimenti pleonastica, che "la legge è uguale per tutti": ma all'estero è così? Ci mancherebbe il contrario! Come se in Chiesa fosse scritto "il Papa crede in Dio".

Tornando ai latinetti, ricordo che dal 1965 cessa la pratica della messa in latino, che muore ufficialmente con il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo, poi liberalizzata con motu proprio papale in vigore dal 14 settembre 2007.

Riecheggia invece negli atti legali il brusio di ritmiche litanie di un latino non più compreso e, pertanto, storpiato: non mi pare indispensabile, nell'economia di un giudizio, l'uso della formuletta magica latina, né che ciò rivesta incidenza diretta sull'epilogo positivo della controversia.

E' d'uopo mandare a memoria che la terza persona plurale del futuro del verbo "cado" è e resta (nessuna riforma è intervenuta in proposito negli ultimi millenni) "cadent": "simul stabunt, simul cadent".

Capisco che lo svarione "cadunt" suoni meglio e quasi tutti i politici offrono pessimi esempi in proposito: compulsare gli atti parlamentari per credere! COMUNICAZIONE PERSUASIVA e POTERE DELLA PAROLA nella pratica forense.

Le parole sono, in definitiva, tutto quello che di più autentico ed incisivo possediamo per esporre le ragioni del nostro cliente e per farci comprendere dal giudice.

Vanno, dunque, adoperate con oculatezza, con parsimonia e, possibilmente, con proprietà e con precisione lessicale.

Venne chiesto a CONFUCIO: "Dove cominceresti se dovessi governare il popolo?" Risposta del Maestro: "migliorerei l'uso del linguaggio"; scusa Maestro, ma che significa? s'interrogavano i presenti; "se il linguaggio non è preciso, ciò che si dice non è ciò che si pensa; e se ciò che si dice non è ciò che si pensa, le opere rimangono irrealizzate; ma se non si realizzano le opere, non progredirà la morale, né l'arte; e se arte e morale non progrediscono, la giustizia non sarà giusta, la nazione non conoscerà il fondamento su cui si fonda e il fine a cui tende.

Non si tolleri perciò alcun arbitrio nelle parole.

Ecco il problema primo fondamentale".

Di certo Confucio, che rivestì cariche importanti nella società civile, non avrebbe avuto bisogno per sé della "riconsulenza legale", ma forse la praticava.


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