Data: 09/11/2010 08:00:00 - Autore: Justowin
Segnaliamo il seguente approfondimento di diritto civile su un tema di stringente attualità per coloro che affronteranno a breve l'esame di abilitazione forense: La proposta irrevocabile, la prelazione e l'opzione. Di Claudia Ruggiu, avvocato. Articolo tratto da “IL CONTRATTO. VALIDITA', INADEMPIMENTO, RISARCIMENTO”, a cura di L. Viola, Collana “Il diritto applicato – I grandi temi” diretta da G. CASSANO, Cedam, 2009. L'art. 1329 c.c. prevede che se il proponente si è obbligato a mantenere ferma la proposta per un certo tempo, la revoca è senza effetto. La proposta è cioè irrevocabile fino alla scadenza del termine stabilito. Tale previsione si spiega con l'esigenza di consentire all'oblato, generalmente esposto all'esercizio del potere di revoca da parte del proponente, di poter contare con certezza sulla conclusione del contratto alle condizioni indicate nella proposta. La dottrina è divisa in ordine al problema della natura giuridica della proposta irrevocabile.

Secondo una prima tesi, la clausola di irrevocabilità trasforma la proposta contrattuale da atto prenegoziale in negozio giuridico unilaterale, avente come effetto quello di attribuire all'oblato il diritto potestativo di concludere il contratto (Santoro Passarelli).

Altra tesi, al contrario, ritiene che la proposta irrevocabile costituisca pur sempre un atto prenegoziale, cui l'ordinamento attribuisce il peculiare effetto di sopravvivere sia ad un'attività contraria del soggetto emittente, sia alla scomparsa o sopravvenuta incapacità dello stesso (Mirabelli). La clausola di irrevocabilità, in quest'ottica, costituirebbero mero elemento accessorio della proposta.

Infine, vi è chi ravvisa la presenza di una duplice dichiarazione, ovvero una proposta ordinaria ex art. 1326 c.c. (di per sé revocabile secondo la regola generale), e una rinuncia al potere di revoca che costituirebbe un distinto negozio unilaterale (Osti).

In sostanza, la dottrina appare divisa tra quanti intendono la proposta irrevocabile come somma di un atto prenegoziale di proposta e di un negozio unilaterale di rinuncia alla facoltà di revoca, e quanti la intendono invece come negozio giuridico unilaterale avente carattere unitario.

Dal punto di vista formale, la giurisprudenza ha innanzitutto chiarito che la proposta irrevocabile (come la proposta ordinaria ex art. 1326 c.c.) deve contenere tutti gli elementi essenziali del contratto da concludere in modo da consentire la conclusione di tale contratto nel momento e per effetto dell'adesione dell'altra parte, senza necessità di ulteriori pattuizioni

(Cass. civ., 10.9.04, n. 18201).

 In mancanza, essa assume carattere di mero accordo preparatorio destinato ad inserirsi nell'iter formativo del futuro contratto con l'effetto di fissarne solo gli elementi già concordati (nella specie, la proposta di compravendita di un immobile aveva riservato ad un successivo accordo le modalità di pagamento del prezzo già stabilito)

(Cass. civ., 29.10.93, n. 10777, in Corr. Giur., 1993, 1401)

 In alcuni casi, è lo stesso legislatore a stabilire l'irrevocabilità della proposta (v. artt. 782, 4° co. c.c.; 1333, 1° co. c.c.; 1887 c.c.). Al di là dei casi di irrevocabilità ex lege, si ritiene che la clausola di irrevocabilità possa essere formulata nel modo più vario, purché adeguato allo scopo, in relazione alla natura dell'affare e delle altre circostanze concomitanti. Si ritiene inoltre che per rendere la proposta irrevocabile non possa essere considerata sufficiente la mera apposizione del termine entro il quale l'oblato può esprimere la propria accettazione, ma debba emergere con chiarezza l'espressa assunzione dell'impegno a non revocare la proposta da parte del proponente (Scognamiglio).

Una questione assai dibattuta concerne l'ipotesi della mancata fissazione del termine alla scadenza del quale la proposta contrattuale perde la sua connotazione di irrevocabilità.

Una tesi sostiene l'applicabilità all'ipotesi in esame della disciplina fissata dall'art. 1183 c.c., secondo cui se le parti del contratto hanno omesso di fissare il termine di adempimento questo può essere determinato dal giudice. In particolare, secondo questa tesi l'art. 1183 c.c. (e l'art. 1331, 2° co. c.c. in tema di opzione) avrebbe codificato un principio di carattere generale applicabile in tutti i casi in cui la mancata fissazione di un termine determini, a carico del soggetto interessato all'apposizione dello stesso, conseguenze contrarie ad equità (Di Majo).

Questa tesi, sostenuta in passato da una parte della giurisprudenza (per esempio, Cass. civ., 8.10.1974, n. 2671, in Giur. it., 1976, I, 1, 1414; Cass. civ., 26.5.65, n. 1059, in Riv. dir. civ., 1968, II, 82; Cass. civ., 25.7.64, n. 2038, in Giur. it., 1965, I, 770), si espone al rilievo critico secondo cui l'art. 1183 c.c. detta la disciplina del tempo dell'adempimento e presuppone quindi che l'obbligazione da adempiere sia già venuta in vita, mentre nel caso della proposta irrevocabile non si è in presenza di un'obbligazione contrattuale già sorta (Gazzoni). Conforme la giurisprudenza, la quale nega che in caso di mancata fissazione del termine sia possibile fare ricorso ad altri meccanismi di determinazione del termine predisposti nel c.c., come quello dettato in materia di opzione dall'art. 1331, 2° comma, non richiamabile analogicamente, data la sua natura di eccezione al principio generale di revocabilità della proposta (art. 1328)

(Cass. civ., 7.4.87, n. 3339, in Mass. Giur. it., 1987).

 Secondo un'altra tesi, se il termine di irrevocabilità non è stato fissato dal proponente, è possibile determinarlo facendo ricorso ai criteri indicati dall'art. 1326, 2° co. c.c. per la proposta ordinaria, sicché il termine sarà quello “ordinariamente necessario secondo la natura dell'affare o secondo gli usi”. L'applicazione dell'art. 1326, 2° co. c.c. si giustifica, secondo questo orientamento, alla luce del fatto che la clausola di irrevocabilità non vale a mutare la natura giuridica della proposta, di modo che la relativa disciplina potrà trovare diretta applicazione ove non derogata (Bianca). In giurisprudenza questa tesi ha trovato talvolta accoglimento:

qualora il proponente non abbia fissato il termine della proposta irrevocabile, può adottarsi come obiettivo criterio di determinazione del tempo di irrevocabilità della proposta quello che, nel caso di proposta semplice, l'art. 1326, 2° co. c.c. indica con riferimento al termine ordinariamente necessario secondo la natura dell'affare o secondo gli usi

(Cass. civ., 22.10.74, n. 3781, in Giur. civ., 1975, I, 894).

 La giurisprudenza prevalente, tuttavia, ritiene che il termine di efficacia di una proposta contrattuale va distinto da quello di irrevocabilità della proposta stessa, l'uno (disciplinato dall'art. 1326 c.c.) avendo la funzione di stabilire il lasso di tempo entro il quale deve pervenire, all'autore di questa, la relativa accettazione, l'altro (disciplinato dal successivo art. 1329) essendo inteso a fissare i limiti di durata di quell'ulteriore e specifica manifestazione di volontà, necessaria perchè una semplice proposta contrattuale acquisti anche il suddetto eccezionale carattere dell'irrevocabilità, con la duplice conseguenza di una possibile diversità di ampiezza dei due termini e della insufficienza, ai fini di siffatta acquisizione, della sola indicazione del primo

(Cass. civ., 1.1.90, n. 41, in Corr. Giur., 1990, 842).

 Inoltre, la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che il termine entro il quale il proponente si obbliga a mantenere ferma la proposta, ai sensi dell'art. 1329, 1° comma, c.c., costituendo elemento essenziale della proposta irrevocabile, deve essere fissato dallo stesso proponente: in mancanza di tale determinazione, la proposta, dovendo considerarsi pura e semplice, è revocabile, a norma dell'art. 1328, 1° comma, c.c., finché il contratto non sia concluso

(Cass. civ., 7.4.87, n. 3339, in Mass. Giur. it., 1987).

 L'efficacia della proposta irrevocabile viene meno quando l'oblato non compia una integrale accettazione, ma, richiedendo modifiche od aggiunte al contenuto del contratto proposto, venga a trasformarsi, a sua volta, in proponente (ex art. 1326 ult. co. c.c.), dando vita ad una nuova proposta che l'originario proponente è libero di accettare o meno, rimanendo svincolato dal precedente impegno (Cass. civ., 13.7.68, n. 2488, in Mass. Giur. it., 1968).

La proposta irrevocabile cessa altresì di avere effetto in caso di rifiuto dell'oblato.

Ai sensi dell'art. 1329 2° co. c.c. la proposta irrevocabile non si caduca a seguito della morte o sopravvenuta incapacità del proponente, salvo che la natura dell'affare o altre circostanze escludano tale efficacia. Si ritiene che la ratio di tale previsione risieda nell'esigenza di tener fermo l'impegno già validamente assunto dal proponente e la conseguenza è che l'effetto derivante dall'accettazione si produce anche nei confronti degli eredi del proponente, pure se l'accettazione avvenga per effetto dell'esibizione in giudizio della scrittura e della sua approvazione

(Cass. civ., 25.7.64, n. 2038, in Mass. Giur. it., 1964).

 Ci si chiede se la proposta possa sopravvivere come semplice se il termine di irrevocabilità (scaduto) sia più breve del termine di efficacia ex art. 1326 c.c. La giurisprudenza afferma che al proponente nell'ambito della autonomia privata, non può negarsi il potere di dar vita ad una proposta irrevocabile ma scindibile da tale sua qualità e quindi capace di sopravvivere, una volta scaduto il termine, come semplice proposta revocabile ex art. 1328 c.c. (nei limiti di tempo di cui all'art. 1326, 2° comma, c.c.)

(Cass. civ., 29.8.91, n. 9229, in Mass. Giur. it., 1991).

 In sostanza, la scadenza del termine di irrevocabilità della proposta ha l'effetto di restituire al proponente la facoltà di revocarla, senza peraltro incidere sull'efficacia della proposta medesima, che rimane suscettibile di accettazione, anche tardiva, secondo le norme che presiedono la formazione del contratto.

 2. L'opzione.

 Ai sensi dell'art. 1331 c.c., quando le parti convengono che una di esse (c.d. concedente) rimanga vincolata alla propria dichiarazione e l'altra (c.d. opzionario) abbia la facoltà di accettarla o meno, la dichiarazione della prima si considera quale proposta irrevocabile per gli effetti previsti dall'art. 1329 c.c.

La dottrina definisce l'opzione come il contratto che attribuisce ad una parte il diritto di costituire il rapporto contrattuale finale mediante una propria dichiarazione unilaterale di volontà, mentre l'altra si impegna a mantenere ferma la propria proposta. Il vincolo derivante dal contratto di opzione non può essere perpetuo, sicché se le parti non hanno fissato convenzionalmente un termine questo è stabilito dal giudice (art. 1331, 2° co. c.c.).

Anche in giurisprudenza si afferma che il patto di opzione è un negozio giuridico bilaterale che dà luogo ad una proposta irrevocabile cui corrisponde la facoltà di una delle parti di accettarla, configurando uno degli elementi di una fattispecie a formazione successiva, costituita inizialmente dall'accordo avente ad oggetto l'irrevocabilità della proposta e, successivamente, dall'accettazione definitiva del promissorio che, saldandosi con la proposta, perfeziona il contratto

(Cass. civ., 10.10.03, n. 15142, in Mass. Giur. it., 2003).

 Il patto di opzione, al pari della proposta irrevocabile, costituisce una figura nuova rispetto al codice del 1865.

La sua introduzione nel codice civile del 1942 si deve alla necessità di predisporre strumenti per la formazione del contratto ulteriori rispetto agli schemi tradizionali dello scambio proposta-accettazione (art. 1326 c.c.) o del contratto concluso mediante esecuzione della prestazione (art. 1327 c.c.), apparsi obsoleti a fronte delle nuove esigenze dei traffici commerciali.

La figura del patto d'opzione, la cui disciplina normativa appare piuttosto scarna, ha dato adito ad ampi dibattiti in dottrina, sia in ordine alla sua natura giuridica e alla sua ratio giustificativa all'interno dell'ordinamento, sia in ordine al rapporto con altri istituti del libro IV del codice civile, in particolare con la proposta irrevocabile ex art. 1329 c.c.

Nel corso del lungo travaglio dottrinale e giurisprudenziale intorno all'istituto, ha avuto modo di affacciarsi la tesi secondo cui l'opzione sarebbe un contratto sottoposto alla condizione sospensiva dell'esercizio del diritto potestativo di accettazione da parte dell'opzionario (App. Milano, 30.7.27, in Foro it., 1927, I, 1111). In realtà l'accettazione dell'opzionario, determinando la conclusione del contratto finale, non può che essere considerato quale requisito essenziale del contratto, e non quale elemento meramente accidentale come la condizione (Sacco).

La dottrina maggioritaria ritiene invece che l'opzione costituisca una peculiare ipotesi di irrevocabilità della proposta contrattuale, con la differenza che mentre l'irrevocabilità della proposta ex art. 1329 c.c. deriva da un atto unilaterale del proponente, l'irrevocabilità della proposta di cui all'art. 1331 c.c. si deve ad un antecedente contratto tra proponente ed oblato, in virtù del quale il contratto finale sarà concluso per effetto dell'eventuale accettazione della proposta da parte dell'oblato entro il termine previsto (Sacco - De Nova).

La differenza fondamentale tra opzione e proposta irrevocabile risiede, quindi, nel fatto che mentre la prima è un contratto la seconda è un atto unilaterale:

 l'opzione, a differenza della proposta irrevocabile, ha natura di negozio giuridico bilaterale; mentre, infatti, nella proposta irrevocabile vi è una parte che avanza una proposta contrattuale ed unilateralmente si impegna a mantenerla ferma per un certo tempo, nella opzione vi sono due parti che convengono che una di esse resti vincolata dalla propria dichiarazione mentre l'altra resta libera di accettarla o meno; in entrambi i casi, perciò, vi è una proposta contrattuale irrevocabile ma mentre nel primo (art. 1329 c.c.) la irrevocabilità dipende esclusivamente dalla volontà, dall'impegno unilaterale del proponente, nel secondo (art. 1331 c. c.) la irrevocabilità dipende da una convenzione tra le parti, le cui volontà devono quindi essere espresse ed incontrarsi

(Cass. civ., 7.4.87, n. 3339, in Mass. Giur. it., 1987).

 

Al fine di stabilire se ricorra un'ipotesi di proposta irrevocabile ex art. 1329 c.c. o un contratto di opzione, occorre accertare se in concreto vi sia stata un'accettazione della controparte, poiché solo in quel caso   potrà riconoscersi la presenza di una convenzione

(Trib. Milano, 29.5.86, in Riv. dir. comm., 1988, II, 149).

 La natura contrattuale dell'opzione comporta, rispetto alla proposta irrevocabile, che un'eventuale accettazione difforme, lungi dal determinare la caducazione della proposta ex art. 1326 ult. co. c.c., non impedisce che entro il termine prefissato intervenga una successiva accettazione conforme. In caso di opzione, infatti, l'efficacia della proposta discende dal vincolo contrattuale e pertanto è destinata a venir meno soltanto per effetto della scadenza del termine, o dell'estinzione del contratto, o della rinuncia da parte dell'opzionario al proprio diritto (Perego).

Correlativamente, il diritto di opzione non si estingue in caso di rifiuto della proposta da parte dell'opzionario, che fino allo scadere del termine può sempre esercitare il diritto.

Secondo una parte della dottrina, l'opzione va qualificata come contratto preparatorio in cui il concedente attribuisce all'opzionario il diritto potestativo di concludere il contratto finale mediante una propria dichiarazione di volontà (Gazzoni). Il contratto dunque si perfeziona non già attraverso lo schema tradizionale dello scambio tra proposta e accettazione ex art. 1326 c.c., ma per effetto di un procedimento connotato dalla conclusione di un contratto preparatorio di opzione (che predetermina il contenuto del rapporto finale), seguito dall'esercizio del diritto di accettazione entro il termine fissato dalle parti (o, in mancanza, in quelli fissato dal giudice ex art. 1331 2° co. c.c.).

Altra parte della dottrina nega che il patto di opzione configuri un'ipotesi di contratto preparatorio, in quanto si ritiene che i negozi preparatori (quali il contratto preliminare e la prelazione convenzionale), abbiano la caratteristica di rimanere distinti rispetto al contratto finale, non costituendo elemento formativo della fattispecie contrattuale, mentre  l'opzione (come pure la proposta e l'accettazione), sarebbe piuttosto qualificabile quale “atto formativo del contratto”, ovvero elemento di una fattispecie a formazione progressiva, la cui autonoma rilevanza cessa nel momento del perfezionamento del contratto (Bianca).

Il contratto di opzione deve essere tenuto distinto dal contratto preliminare (ed in particolare dal contratto preliminare unilaterale), per una serie di ragioni.

Innanzitutto, dal preliminare unilaterale nasce, a carico del promittente, un obbligo a contrarre (ovvero l'obbligo di stipulare il contratto definitivo), laddove con l'opzione nasce a favore del beneficiario il diritto potestativo, che egli è libero di esercitare o meno, di determinare il perfezionamento del contratto finale. Di conseguenza, mentre per effetto del contratto preliminare nasce un rapporto di credito – obbligazione, per effetto dell'opzione si tratta piuttosto della combinazione diritto potestativo – soggezione. Il concedente non è dunque tenuto a porre in essere alcun comportamento positivo volto a rendere possibile la conclusione del contratto finale:

 

nell'opzione il promittente, se nulla deve fare di positivo per la conclusione del contratto, deve tuttavia mantenere un comportamento di astensione affinché la conclusione del contratto non sia impedita. Trattasi di obbligazione negativa il cui inadempimento non è opponibile ai terzi che ne abbiano tratto vantaggio e produce solo l'obbligo di risarcimento a carico del promittente inadempiente

(Cass. civ., 6.5.75, n. 1893, in Foro it., 1976, I, 1659).

 

In secondo luogo, mentre in caso di contratto preliminare gli effetti del contratto definitivo si producono solo a seguito di un successivo incontro di dichiarazioni tra le parti, nell'opzione per la conclusione del contratto finale è sufficiente la semplice dichiarazione unilaterale di accettazione dell'oblato (Cass. civ., 11.10.86, n. 5950, in Giur. it., 1987, I, 1, 1626).

La giurisprudenza tende a sottolineare le differenze esistenti tra contratto preliminare e opzione:

 il contratto preliminare unilaterale è un contratto in sé perfetto e autonomo, ancorché con obbligazioni a carico di una sola parte, rispetto al contratto definitivo, mentre l'opzione non è che uno degli elementi di una fattispecie a formazione successiva, costituita inizialmente da un accordo avente a oggetto l'irrevocabilità della proposta e, successivamente, dall'accettazione definitiva del promissario che, saldandosi con la proposta, perfeziona il contratto; accordo questo la cui identificabilità è rimessa al giudice di merito, che deve far riferimento al comune intento negoziale. Ne consegue che il nesso strumentale esistente tra contratto preliminare e contratto definitivo non ha nulla in comune con il legame strutturale che intercorre tra il momento iniziale (proposta resa vincolante per accordo tra le parti) e il momento finale (accettazione) nel fenomeno della formazione progressiva del contratto, in quanto, nell'ipotesi del contratto preliminare unilaterale gli effetti definitivi si producono solo a seguito di un successivo incontro di dichiarazioni tra le parti contraenti, mentre nel caso dell'opzione, che contenga una proposta irrevocabile, gli effetti finali del contratto definitivo si producono in virtù della semplice dichiarazione unilaterale di accettazione della parte non obbligata

(Cass. civ., 26.3.97, n. 2692, in Mass. Giur. it., 1997).

 

Negli stessi termini, si è altresì specificato che qualora il definitivo assetto (su base contrattuale) di interessi tra le parti non si formi immediatamente per mezzo di un unico atto, si possono prospettare tre diverse ipotesi, produttive di differenti conseguenze giuridiche: a) patto d'opzione (art. 1331 c.c.), negozio bilaterale con cui si concorda l'irrevocabilità della dichiarazione di una delle parti relativamente ad un futuro contratto che sarà concluso con la semplice accettazione dell'altra parte (relativamente ad un regolamento negoziale interamente contemplato nel patto di opzione), la quale però rimane libera di accettare o meno detta dichiarazione, entro un certo termine; b) c.d. “contratto preparatorio” in senso stretto (o “puntuazione”), con cui i contraenti si accordano su taluni punti del futuro contratto, in occasione della cui stipula (a cui le parti non sono obbligate, così come nei casi in cui sono intercorse semplici trattative) non sarà necessario un nuovo incontro di volontà sui punti già definiti; c) contratto preliminare, diretto ad obbligare le parti (o una sola nel caso di preliminare unilaterale) a stipulare un futuro contratto

(Cass. civ., 13.12.94, n. 10649, in Mass. Giur. it., 1994).

 

Proprio in virtù della assoluta distinzione che intercorre tra preliminare e opzione, la giurisprudenza tende ad ammettere la configurabilità di un patto di opzione avente ad oggetto la stipula, anziché di un contratto definitivo, di un contratto preliminare (c.d. opzione di preliminare):

 l'esercizio del diritto di opzione, attraverso l'accettazione tempestiva della proposta irrevocabile, può dar luogo, a seconda della volontà delle parti e del contenuto della proposta stessa, sia ad un contratto definitivo, con immediati effetti costitutivi o traslativi di diritto, sia ad un contratto preliminare con contenuto obbligatorio. Pertanto, deve sempre farsi riferimento al comune intento negoziale per stabilire se il patto di opzione concerna un contratto definitivo ovvero un contratto preliminare

(Cass. civ., 18.5.67, n. 1071, in Mass. Giur.it., 1967).

 Si ammette altresì la configurabilità del c.d. preliminare di opzione, inteso come contratto preliminare avente ad oggetto l'obbligo di concludere un contratto di opzione (Cass. civ., 30.7.47, n. 1284, in Giur. it., 1948, I, 1, 110).

Una questione controversa attiene all'ammissibilità del contratto di opzione gratuita, caratterizzato dalla mancata previsione, a favore del concedente, di una somma (detta premio) quale corrispettivo per la concessione del diritto di opzione.

Sebbene l'art. 1331 c.c. non preveda quale elemento essenziale del contratto di opzione la pattuizione di un corrispettivo a favore del concedente, nondimeno parte della dottrina ritiene che il contratto d'opzione gratuita sia nullo per mancanza di causa (Carresi). In assenza di corrispettivo, si potrebbe al più ipotizzare l'esistenza di un contratto di donazione ove assistito dalla forma solenne prevista dall'art. 782 c.c. In giurisprudenza si è affermato che

 

è nulla per mancanza di causa l'attribuzione del diritto di opzione per l'acquisto di un bene a prezzo prefissato senza la previsione di un apposito corrispettivo

(App. Milano, 5.2.97, in Giur. it., 1998, 488).

 

Nella sentenza da ultimo citata la Corte d'Appello di Milano, dopo aver qualificato come patto d'opzione la scrittura privata, sottoscritta da entrambe le parti, con cui una di esse s'impegnava irrevocabilmente nei riguardi dell'altra a venderle un terreno a prezzo prefissato, senza previsione di alcun premio a favore del concedente, ha rilevato che il contratto d'opzione gratuito è da considerare nullo in applicazione del principio di diritto (affermato, tra le altre, da Cass. civ., 21.7.65, n. 1299, in Giur. it., I, 1, 1412 e Cass. civ., 20.11.92, n. 12401, in Foro it., 1993, I, 1506) secondo cui l'obbligazione assunta dal proponente di tenere ferma la propria proposta per il tempo convenuto (..) in tanto può validamente sorgere in quanto trovi una contropartita in analoghi impegni - a carattere preliminare o preparatorio- posti a carico della parte nei cui confronti viene fatta la proposta, ovvero venga pattuito per essa un corrispettivo in denaro (c.d. “premio”)

(Cass. civ., 21.7.65, n. 1299, in Giur. it., I, 1, 1412).

 Tuttavia, nei due precedenti richiamati dalla Corte d'Appello, la Corte di Cassazione affrontava fattispecie afferenti a negozi definitivi con effetti traslativi, e pertanto difficilmente è possibile estendere il principio di diritto da essa espresso alla fattispecie dell'opzione, priva di efficacia traslativa e non qualificabile come negozio definitivo (essendo elemento del processo di formazione del contratto).

L'opinione favorevole all'ammissibilità dell'opzione gratuita rileva innanzitutto che, quand'anche si volesse accedere ad una concezione del contratto di opzione come negozio esclusivamente oneroso, dovrebbe convenirsi che un'opzione gratuita, nulla per mancanza di causa, dovrebbe quantomeno essere riqualificata come negozio unilaterale riconducibile ad una proposta irrevocabile in applicazione dell'art. 1367 c.c. secondo cui “nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno”.

In secondo luogo, si nega decisamente che l'opzione gratuita debba essere considerata come contratto privo di causa. Dalla collocazione del contratto di opzione tra le norme sul contratto in generale (libro IV, titolo II del codice civile), ed in particolare tra quelle relative all'accordo, si ricava infatti che la causa di tale contratto è quella di agevolare la conclusione del contratto finale, rendendo fissa ed immutabile la proposta contrattuale mediante la creazione, a favore dell'opzionario, del diritto potestativo di concludere il contratto con una dichiarazione unilaterale di volontà (Cesaro).

Se è  vero che, come affermato dalla Corte d'appello di Milano nella sentenza sopra riportata, il titolare del diritto d'opzione può, godendo del prezzo bloccato garantito dall'obbligo del proponente di tenere ferma la proposta, decidere di addivenire all'acquisto dell'immobile solo se l'evoluzione del mercato abbia determinato un aumento del prezzo del bene, così evitando inoltre anche i rischi connessi alla diminuzione di valore commerciale dello stesso bene, il concedente è mosso dall'interesse a rendere quanto più probabile e raggiungibile la conclusione del contratto; ove poi si preveda anche un premio a suo favore, tale corrispettivo non è idoneo ad alterare lo schema causale del contratto (Gulotta).

L'art. 1331 c.c. detta una disciplina assai scarna del patto di opzione, limitandosi a richiamare il disposto dell'art. 1329 c.c. sulla proposta irrevocabile (inefficacia della revoca e persistente efficacia della dichiarazione in caso di morte o sopravvenuta incapacità del dichiarante), e stabilendo che se per l'accettazione non è previsto un termine, questo può essere fissato dal giudice (art. 1331, 2° co. c.c.). Sotto quest'ultimo profilo, ai fini della configurabilità del contratto di opzione è irrilevante che manchi la fissazione di un termine per l'accettazione della proposta, poiché l'art. 1331 c.c. prevede espressamente che il termine possa essere stabilito dal giudice quando ciò sia necessario

(Cass. civ., 5.6.87, n. 4901, in Mass. Giur. it., 1987).

 In caso di mancata accettazione nel termine, si ritiene che l'efficacia dell'opzione venga meno (trattandosi di termine di efficacia del contratto di opzione, e non di termine di irrevocabilità della proposta, che pertanto non può sopravvivere come proposta semplice). Infatti il mancato esercizio, entro la scadenza del termine all'uopo fissato, della facoltà di accettare l'altrui proposta, facendo venir meno la soggezione dell'offerente al diritto potestativo del contraente cui è stata concessa l'opzione, libera definitivamente il primo, con la conseguenza che la manifestazione della volontà del secondo di aderire all'offerta, se sopravviene tardivamente equivale a nuova proposta che non vincola l'originario offerente se non in caso di accettazione da parte del medesimo

(Cass. civ., 7.5.92, n. 5423, in Mass. Giur. it., 1992).

 

L'opzione deve contenere tutti gli elementi essenziali del negozio finale alla cui conclusione essa è preordinata:

la configurabilità del patto di opzione resta esclusa nel caso in cui la proposta contenga solo alcuni elementi essenziali e non l'intero regolamento negoziale perché, in tal caso, il perfezionarsi del contratto non può conseguire alla mera accettazione, ma richiede la formazione del consenso sugli ulteriori elementi non contemplati dalla proposta stessa

(Cass. civ., 10.9.04, n. 18201).

 

Tuttavia, in caso di vendita l'accettazione della proposta contenuta in un contratto di opzione è idonea a generare il perfezionamento del contratto non soltanto quando il prezzo sia già determinato in detto contratto di opzione, ma anche quando sia determinabile alla stregua di criteri, riferimenti o parametri precostituiti, dando luogo ad una successiva attività delle parti meramente attuativa o ricognitiva

(Cass. civ., 14.2.86, n. 873, in Giur. it., 1987, I, 1, 282).

 L'opinione prevalente ritiene che il contratto di opzione (nonché l'atto di esercizio del diritto di opzione), debba rivestire la medesima forma prescritta dalla legge per il contratto definitivo (forma per relationem). Pertanto, ai fini della conclusione di un contratto di compravendita di immobili (…) è comunque necessario che la manifestazione di volontà della parte non obbligata diretta (…) all'accettazione della proposta irrevocabile abbia anch'essa la forma scritta, non potendo essere dimostrata mediante fatti concludenti

(Cass. civ., 11.10.86, n. 5950, in Giur. it., 1987, I, 1, 1626).

 Negli stessi termini, la giurisprudenza ha affermato che l'accettazione della proposta contenuta in un patto d'opzione - accettazione che saldandosi con detta proposta determina la conclusione del (secondo) contratto - richiede la forma scritta "ad substantiam" se l'oggetto di quest'ultimo contratto è il trasferimento della proprietà di beni immobili (o di diritti immobiliari) o la promessa del loro trasferimento, ai sensi degli art. 1350 e 1351 c.c. Tale forma scritta, come per ogni altro contratto in materia immobiliare, non è integrata da meri comportamenti e neanche da qualunque documento, essendo richiesto, invece, che l'atto scritto contenga la manifestazione di volontà di concludere il contratto e sia posto in essere dalla parte al fine specifico di manifestare detta volontà. Questo contenuto non può riconoscersi a dichiarazioni di quietanza relative al prezzo (o a sue rate), le quali presuppongono il contratto ma non pongono in essere lo stesso

(Cass. civ., 13.12.94, n. 10649, in Mass. Giur. it., 1994).

 

Qualsiasi modifica concernente il contenuto del contratto di opzione, come per esempio il termine entro il quale l'oblato può accettare la proposta (elemento costitutivo essenziale del patto di opzione), deve rivestire la medesima forma prescritta per detto negozio e provenire dalla volontà comune delle parti ovvero da un loro rappresentante, munito di procura generale o speciale, espressamente conferita tal fine (Cass. civ., 12.12.02, n. 17737, in Mass. Giur. it., 2002).

Lo schema del patto di opzione è astrattamente applicabile in relazione a qualsiasi tipo di contratto (Cass. civ., 25.5.83, n. 3625, in Mass. Giur. it., 1983 lo ritiene legittimamente utilizzabile anche ai fini dell'instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato), anche se nella prassi ricorrono perlopiù ipotesi di opzione di compravendita e di mutuo.

Circa gli obblighi delle parti del contratto di opzione, la Corte di Cassazione ha innanzitutto chiarito, riguardo alla posizione dell'opzionario, che poichè l'art. 1337 c.c. impone alle parti il dovere di comportarsi secondo buona fede oltre che nello svolgimento delle trattative anche nella formazione del contratto, è configurabile, dopo la conclusione del patto di opzione, la responsabilità del promissario per un suo comportamento tale da ingenerare nel promittente il ragionevole affidamento nella conclusione del successivo contratto, non seguito, poi, dall'accettazione, poichè la facoltà di accettare o meno la dichiarazione, alla quale il promittente è vincolato, non esclude che il promissario debba tenere nei confronti del promittente un comportamento secondo buona fede, astenendosi perciò dall'ingenerare nell'altra parte il convincimento che la dichiarazione alla quale essa è vincolata sarà accettata e che quindi il contratto sarà concluso

(Cass. civ., 11.2.80, n. 960, in Mass. Giur. it., 1980).

 Anche il concedente può incorrere in una responsabilità in contraendo ex art. 1337 c.c. qualora tenga un comportamento, contrario a buona fede, tale da rendere impossibile la conclusione del contratto definitivo (per esempio, distruggendo il bene o alienandolo a terzi). In tal caso, egli sarà tenuto al risarcimento del danno (nei limiti dell'interesse negativo) e alla restituzione del premio, ove si tratti di opzione onerosa (Scognamiglio).

Un'opinione minoritaria ritiene invece che in presenza di un comportamento impeditivo della conclusione del contratto finale, posto in essere dal concedente o dall'opzionario, dovrebbe piuttosto parlarsi di responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., in quanto, essendo l'opzione un vero e proprio contratto, le parti hanno assunto l'impegno contrattuale ad eseguire secondo buona fede quanto pattuito (art. 1375 c.c.), ed in particolare a non renderne impossibile l'attuazione (Gabrielli). Corollario di questa tesi è la risarcibilità, anziché del mero interesse negativo, dell'interesse positivo. La dottrina maggioritaria obietta tuttavia che, se l'oblato non ha ancora esercitato il suo diritto, l'art. 1218 c.c. non può trovare applicazione poichè la conclusione del contratto finale (a differenza di quanto avviene in caso di contrattazione preliminare) è soltanto eventuale.

Può parlarsi invece di responsabilità contrattuale del concedente qualora l'oblato abbia esercitato il diritto di opzione, in quanto in tal caso la responsabilità deriva dalla violazione degli obblighi discendenti dal contratto finale (Scognamiglio).

In caso di alienazione del bene a terzi, si pone il problema di stabilire se il contratto di opzione sia ed essi opponibile. Questione correlata è quella attinente alla trascrivibilità o meno del patto di opzione.

La prevalente dottrina e giurisprudenza opta per la tesi della rilevanza meramente interna (inter partes) del patto di opzione, il quale, generando a carico del concedente un'obbligazione meramente negativa di carattere personale (avente ad oggetto un comportamento negativo di astensione affinché la conclusione del contratto finale non risulti impedita), non spiega alcun effetto nei confronti dei terzi, ai quali non è pertanto opponibile. Corollario di questa tesi è la ritenuta intrascrivibilità del patto di opzione, in assenza di una norma espressa quale è, per il contratto preliminare, l'art. 2645 bis c.c. (Cass. civ., 16.5.75, n. 1893, in Foro it., I, 1659).

 

3. La prelazione volontaria.

Il patto di prelazione è l'accordo con il quale un soggetto (detto promittente o concedente) si impegna nei confronti di un altro (detto prelazionario) a preferirlo rispetto ai terzi, e a parità di condizioni, qualora in futuro decida di stipulare un determinato contratto.

Il pactum prelationis non trova, nel codice civile, una regolamentazione unitaria. La ragione di tale scelta legislativa viene tradizionalmente ravvisata nel disfavore con cui il legislatore del 1942 guardava agli atti di autonomia privata volti a limitare la libera circolazione dei beni (Nuzzo). In virtù del patto di prelazione, infatti, il concedente acconsente a limitare la propria libertà negoziale sotto il profilo della scelta della controparte contrattuale. L'assenza di una disciplina organica del patto di prelazione ha così determinato numerose difficoltà nella ricostruzione dogmatica dell'istituto, dando adito tra l'altro a tentativi dottrinali di riconduzione della figura in esame ad uno degli schemi negoziali disciplinati dal legislatore.

Il patto di prelazione è stato in particolare ricondotto alla figura del contratto preliminare, in virtù della ritenuta equivalenza tra l'obbligo di dare la preferenza al prelazionario e l'obbligo a contrarre con la controparte, e ricostruito pertanto come contratto preliminare unilaterale sottoposto alla condizione sospensiva potestativa che il promittente si induca alla stipulazione del contratto (Rubino). L'identificazione con il contratto preliminare porta conseguentemente all'integrale applicazione della relativa disciplina (ed in particolare l'art. 2932 c.c. che consente l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo a contrarre e l'art. 2645 bis c.c. che, in presenza di determinati presupposti, consente la trascrizione del contratto preliminare).

In realtà, come sottolineato dalla dottrina maggioritaria, nel patto di prelazione non è ravvisabile alcun obbligo a contrarre a carico del concedente, che rimane libero di decidere in ordine sia all'an (se concludere o meno il contratto), sia al quomodo della contrattazione (poiché nel patto di prelazione non deve necessariamente essere predeterminato il contenuto del futuro eventuale contratto), vincolandosi soltanto in ordine alla scelta del contraente a parità di condizioni. In giurisprudenza si è conformemente affermato che

 

a differenza del contratto preliminare unilaterale, che comporta l'immediata e definitiva assunzione dell'obbligazione di prestare il consenso per il contratto definitivo, il patto di prelazione relativo alla vendita di un bene genera, a carico del promittente, un'immediata obbligazione negativa di non venderlo ad altri prima che il prelazionario dichiari di non voler esercitare il suo diritto di prelazione o lasci decorrere il termine all'uopo concessogli, ed un'obbligazione positiva avente ad oggetto la "denuntiatio" al medesimo della sua proposta a venderlo, nel caso si decida in tal senso. Questa obbligazione, nel caso di vendita ad un terzo del bene predetto, sorge e si esteriorizza in uno al suo inadempimento, sì che il promissario non può chiederne l'adempimento in forma specifica, per incoercibilità di essa a seguito della vendita al terzo, ma soltanto il risarcimento del danno, mentre, nel caso di promessa di vendita ad un terzo del medesimo bene, è ugualmente incoercibile, ai sensi dell'art. 2932 c.c., non configurando un preliminare

(Cass. civ., 12.4.99, n. 3571, in Mass. giur. it., 1999).

 

L'assenza, in capo al concedente, di un obbligo a contrarre fa anche ritenere che egli possa porre in essere qualsivoglia comportamento da cui derivi l'impossibilità di conclusione del contratto:

 il patto di prelazione, comportando solo l'obbligo di preferire, a parità di condizioni, l'altra parte nella conclusione di un eventuale contratto di alienazione del bene che ne è l'oggetto, limita solo le modalità di esercizio del potere di alienazione del soggetto vincolato (senza alcun pregiudizio per la sua libertà di decidere l'alienazione o meno del bene) e non anche le facoltà dello stesso di godimento della cosa, che può essere, pertanto, liberamente trasformata o modificata dal proprietario

(Cass. civ., 22.7.93, n. 8199, in Vita not., 1994, I, 214).

 Altra opinione accosta il patto di prelazione al contratto di opzione ex art. 1331 c.c. Si obietta tuttavia che, mentre l'opzione attribuisce all'opzionario il diritto potestativo di determinare la conclusione del contratto mediante una dichiarazione unilaterale di volontà, cui corrisponde una correlativa soggezione del promittente, il patto di prelazione non attribuisce al prelazionario il potere di costituire il rapporto contrattuale mediante una propria manifestazione di volontà, essendo invece necessaria, ove il concedente intenda concludere il contratto, la stipulazione di un nuovo contratto distinto dal patto di prelazione. Così si esprime anche la giurisprudenza maggioritaria, secondo cui:

 il criterio discretivo tra le figure dell'opzione e della prelazione è l'obiettiva esistenza nell'opzione di un rapporto sostanziale che abbia con l'accettazione dell'oblato tutti gli elementi, o almeno gli elementi essenziali, per considerarsi concluso; mentre nella prelazione vi è solo la previsione di un contratto, nella cui stipulazione il beneficiario ha diritto di essere preferito ad altri

(Cass. civ., 21.1.82, n. 402, in Foro it., 1982, I, 1983).

 La dottrina più moderna tende a riconoscere al patto di prelazione una funzione autonoma, idonea a giustificarlo casualmente, e consistente nella finalità di attribuire ad una parte il vantaggio di essere preferito ad altri nella stipulazione di un futuro, eventuale contratto (Scognamiglio). Di qui l'ammissibilità di un patto di prelazione gratuito, ovvero senza previsione di un corrispettivo a carico del prelazionario, suscettibile di conclusione ex art. 1333 c.c.

Una questione discussa in dottrina e in giurisprudenza attiene alla validità del patto di prelazione che non preveda alcun termine di efficacia (o che ne preveda uno eccessivamente lungo).

Secondo un orientamento, dovrebbe trovare applicazione l'art. 1379 c.c. che, nel regolamentare i divieti convenzionali di alienazione, impone che essi siano contenuti entro convenienti limiti di tempo, pena la nullità del patto (così App. Milano, 15.9.72, in Giur. mer., 1973, I, 123, secondo cui la previsione di un congruo limite temporale di efficacia è requisito essenziale per la validità del patto che altrimenti potrebbe comportare una limitazione della libertà negoziale troppo onerosa per il promittente, non potendosi considerare pienamente disponibile la libertà di autodeterminazione dei soggetti).

Altro orientamento nega l'applicabilità dell'art. 1379 c.c. in quanto si ritiene che il patto di prelazione non comporti in realtà un vincolo di alienazione, limitandosi a disciplinare (senza limitarla) la libertà di disposizione del diritto. Di conseguenza, il termine di efficacia può essere omesso senza che a ciò consegua la nullità del patto (Cass. civ., 5.5.93, n. 5213, in Foro it., 1983, I, 2770).

Né si ritiene possibile applicare in via analogica l'art. 1566 c.c. che, in relazione al contratto di somministrazione, fissa in un quinquennio il termine di durata massima del patto di prelazione. Infatti, la norma intende disciplinare l'aspetto specifico del divieto di concorrenza.

In ordine alla posizione del concedente, la giurisprudenza ha chiarito che

dal patto di prelazione nascono, a carico del promittente, due obbligazioni: l'una, negativa, che lo vincola a non concludere il contratto, a cui la prelazione si riferisce, con terze persone, fino a che il promissario abbia dichiarato di non accettare, o non abbia accettato nel termine convenuto, le proposte fatte da terzi; l'altra, positiva, che vincola il promittente a comunicare al promissario le proposte a lui fatte da terzi, o che egli intende fare a terzi una volta determinatosi alla conclusione del contratto; la comunicazione, che il promittente è tenuto a fare al promissario, ove sia relativa alle proposte fatte da terzi ovvero a costoro fatte dal promittente, deve riguardare la proposta nella sua completezza, contenendo gli elementi essenziali del contratto da concludere, ed ha la natura della proposta contrattuale del promittente al promissario, onde questi può dichiarare la sua accettazione o meno al promittente con la conseguenza, nel caso positivo, di conclusione del contratto

(Cass. civ., 27.1.79, n. 586).

 

Il patto di prelazione dunque genera, a carico del promittente, l'obbligo positivo di comunicare al prelazionario l'intenzione di concludere il contratto, indicandogli le clausole contenenti gli elementi essenziali di esso ed assegnandogli un termine entro il quale decidere se esercitare o meno il diritto di preferenza (c.d. denuntiatio). In caso di rifiuto o di mancata risposta da parte del prelazionario, il promittente resta libero di concludere il contratto col terzo. La giurisprudenza ha peraltro specificato che

 

l'obbligo del promittente perdura fino a quando non divenga impossibile, in conseguenza della effettiva vendita al terzo della cosa, l'esercizio della prelazione o fino alla scadenza del termine pattuito. Non vi è invece ragione di considerarlo estinto a seguito del rifiuto del promissario ad avvalersi della preferenza in relazione ad una prima proposta non seguita dall'effettiva conclusione del contratto con il terzo

(Cass. civ., 11.11.74, n. 3537).

 

L'opinione maggioritaria assegna alla denuntiatio la qualificazione giuridica di una vera e propria proposta contrattuale (con la conseguenza che essa dovrà possedere il requisito della completezza, e dunque contenere gli elementi essenziali del contratto che il promittente intende concludere), anche se non mancano autori che ritengono che la denuntiatio soltanto in via eventuale possa contenere una proposta, essendo di regola un invito ad offrire (Gabrielli).

Nel caso in cui il promittente concluda il contratto con il terzo senza aver prima effettuato la denuntiatio al prelazionario, si ha inadempimento del patto di prelazione con conseguente obbligo di risarcimento del danno ex art. 1218 c.c. a carico del promittente ed ex art. 2043 c.c. a carico del terzo che, consapevole dell'esistenza del patto di prelazione, abbia concorso all'inadempimento del promittente (Cass. civ., 9.1.97, n. 99, in Nuova giur. civ., 1998, I, 17). Non essendo configurabile alcun obbligo a contrarre a carico del promittente, non è invocabile l'art. 2932 c.c. in tema di esecuzione in forma specifica. Inoltre, non è ipotizzabile alcun potere di riscatto a favore del prelazionario il cui diritto sia stato violato, perché la prelazione è un diritto di natura obbligatoria, non opponibile ai terzi:

 

la prelazione convenzionale non ha natura reale, ma obbligatoria e, non essendo riconducibile alla promessa di stipulare, non è suscettibile di esecuzione coattiva anche nei confronti del promittente. Pertanto, essendo efficace e vincolante per i soli contraenti e non anche per i terzi estranei, l'acquisto di questi ultimi dal promittente, inadempiente al relativo patto, non è soggetto a caducazione a seguito della pretesa di riscatto esercitata dal promissario della prelazione, che è titolare solo dell'azione personale risarcitoria nei confronti dell'inadempiente

(Cass. civ., 18.7.02, n. 10435, in Giust. civ., 2003, I, 2867).

 

Trattandosi di un contratto privo di efficacia reale, il patto di prelazione non è suscettibile di trascrizione (Alpa). A quest'ultimo proposito la giurisprudenza ha affermato che

 l'eventuale trascrizione del patto di prelazione (…) nulla aggiunge alla sua ordinaria efficacia obbligatoria e non può, quindi, rendere opponibile al terzo acquirente il diritto (ad essere preferito) del promissario, che, in ipotesi di inadempienza del promittente, può solo agire contro di lui per il risarcimento del danno

(Cass. civ., 13.5.82, n. 3009, in Giust. civ., I, 3085).

 

L'unica eccezione alla regola dell'efficacia meramente obbligatoria del patto di prelazione si riscontra nelle clausole di prelazione che possono essere previste dagli statuti delle società di capitali. A seguito della riforma del diritto societario attuata con d.lgs. 17.1.03 n. 6, l'art. 2355 bis c.c. prevede infatti che lo statuto societario possa sottoporre a “particolari condizioni” il trasferimento delle azioni nominative e l'art. 2469 c.c. prevede che le partecipazioni sono liberamente trasferibili “salvo contraria disposizione dell'atto costitutivo”, che può porre “condizioni o limiti”. La riforma del 2003 in realtà non muta sostanzialmente il quadro precedente, che già consentiva l'inserimento di clausole di prelazione negli statuti societari (artt. 2355, 2464, 2479, 2523 c.c. ante riforma).

La dottrina configura la prelazione societaria come ipotesi di prelazione convenzionale, e ne individua una duplice ratio giustificatrice: da un lato, consentire ai soci di evitare l'ingresso nella compagine societaria di persone estranee, e dall'altro permettere loro di evitare modificazioni del rapporto di partecipazione al capitale sociale (attraverso l'incremento, in caso di fuoriuscita dalla società di uno o più soci, della percentuale di quote o azioni detenute). Per la giurisprudenza,

 la clausola statutaria di prelazione, come limite alla libera circolazione delle partecipazioni societarie, è idonea a realizzare un interesse della società, oltre che dei soci uti singuli

(Cass. civ., 14.1.05, n. 691, in Società, 2005, 12, 1520).

 

E in particolare,

non può affermarsi che le clausole di prelazione siano poste solo in funzione di un interesse dei soci, essendo invece innegabile che, in quanto dirette ad assicurare l'omogeneità della compagine sociale, tali clausole siano destinate ad operare anche nell'interesse comune dei soci, e quindi di un interesse che trascende quello, individuale, di ciascuno di essi. Le disposizioni di cui all'art. 2480, comma 3, c.c. prev., si applicano, pertanto, anche allorchè la non libera trasferibilità della quota derivi dall'esistenza di una clausola statutaria di prelazione

(Cass. civ., 14.1.05, n. 691, in Società, 2005, 597).

 

Anche la giurisprudenza di merito riconosce che

la clausola avente ad oggetto il diritto di prelazione riconosce al socio un diritto per sua natura funzionale, collegato ad un interesse sociale che si assume preminente al punto di giustificarne la introduzione all'interno dello statuto: la prelazione costituisce una clausola organizzativa della compagine sociale nelle fasi che presiedono il suo avvicendamento, mirando alla definizione e tutela in via primaria dell'interesse sociale alla tendenziale omogeneità della compagine sociale

(Trib. Bologna, 21.3.95, in Riv. not., 1996, 934).

 

Le clausole di prelazione societaria possono assumere una duplice fisionomia, distinguendosi tra clausole di prelazione c.d. propria e clausole di prelazione c.d. impropria.

Le clausole di prelazione propria sono quelle che attribuiscono ai soci il diritto ad essere preferiti, in caso di alienazione della partecipazione sociale, a parità di condizioni rispetto ai terzi (determinate sulla base del contenuto della denuntiatio). Le clausole di prelazione impropria, invece, attribuiscono ai soci il diritto ad essere preferiti anche a condizioni diverse (e meno vantaggiose per l'alienante) rispetto a quelle concordate tra l'alienante e il terzo, così superando il requisito della parità di condizioni, tipico della prelazione convenzionale. L'ammissibilità della figura della prelazione societaria impropria viene perlopiù fatta salva dalla dottrina e dalla giurisprudenza (Cass. civ., 22.2.01, n. 2613, in Mass. giust. civ., 2001; Cass. civ., 12.6.01, n. 7879, in Società, 2002, 42), sulla base del rilievo secondo cui la maggiore onerosità per l'alienante si giustifica in ragione dell'interesse della società che, rispetto ai comuni casi di prelazione convenzionale, richiederebbe una maggiore flessibilità.

La giurisprudenza è incline a riconoscere efficacia reale alle clausole di prelazione societaria, di cui non si dubita l'opponibilità ai terzi. La dottrina sottolinea tuttavia come tale efficacia sia diretta conseguenza dell'opponibilità ai terzi dello statuto societario, nel quale esse sono contenute (Gabrielli).

Si discute in ordine alle conseguenze della violazione della clausola di prelazione societaria. L'opinione maggioritaria nega l'esperibilità di un'azione di riscatto nei confronti dei terzi acquirenti della partecipazione sociale. Anche la giurisprudenza  afferma che la clausola dello statuto di società per azioni che attribuisce ai soci il diritto di prelazione sulle azioni alienate da un altro membro della compagine sociale legittima il socio pretermesso a far valere l'inefficacia del trasferimento in violazione di detta clausola, nei confronti tanto del socio inadempiente quanto del terzo acquirente, ma non ad esercitare il diritto di riscatto delle azioni alienate in dispregio della clausola:

 

in caso di violazione di clausola statutaria di prelazione deve escludersi che al socio prelazionario pretermesso spetti un vero e proprio diritto di riscatto delle azioni o quote alienate a terzi: un tale diritto di riscatto, costituente un notevole limite all'autonomia contrattuale ed un'eccezione al principio generale sancito dall'art. 1379 c.c., non può infatti ravvisarsi in ipotesi diverse da quelle di prelazione legale in tal senso espressamente regolamentate dalla legge

(Trib. Roma, 18.3.98, in Società, 1998, 10, 1185).

Non mancano peraltro opinioni di segno contrario: secondo Santoro Passarelli “poiché l'atto di prelazione limita nel senso accennato, ma non toglie, il potere di disposizione del titolare del bene, l'alienazione al terzo non può dirsi nulla. È valida, sebbene inopponibile al soggetto cui spetta la prelazione. Si tratta di un'inefficacia relativa, sussistente cioè soltanto rispetto al soggetto che faccia valere il suo diritto mediante riscatto. Col riscatto l'acquisto del terzo si risolve e l'avente diritto acquista direttamente il bene dall'alienante. In mancanza del riscatto il bene rimane validamente acquistato dal terzo a tutti gli effetti”. In giurisprudenza:

qualora una quota di s.r.l. sia stata ceduta senza rispettare il diritto di prelazione dei soci, la cessione stessa è inefficace nei confronti del socio prelazionario pretermesso il quale, ove il trasferimento non sia venuto meno sì che il socio alienante abbia riacquistato la titolarità delle quote cedute, può esercitare il diritto di riscatto

(Pret. Terni, 29.10.99, in Rass. giur. umbra, 2000, 90).

 La prelazione volontaria va tenuta distinta dai vari casi di prelazione di fonte legale, la cui disciplina positiva presenta il tratto costante dell'opponibilità ai terzi del diritto del prelazionario (c.d. efficacia reale delle prelazioni legali), cui si correla il c.d. diritto di riscatto in virtù del quale, in caso di omessa denuntiatio, il prelazionario ha il potere di far venir meno l'acquisto del bene da parte del terzo. La giurisprudenza ha rilevato che, nelle prelazioni di fonte legale, assistite dal carattere di realità assicurato dal diritto di riscatto, il relativo diritto si sovrappone all'autonomia contrattuale e la limitazione del potere dispositivo del proprietario trova giustificazione nella funzione sociale della proprietà (art. 42 cost.), sicchè il sacrificio imposto in funzione dell'interesse superindividuale conferisce alla norma che lo prevede l'inevitabile carattere della eccezionalità, con la conseguenza della inapplicabilità della disciplina oltre i casi tipici regolati

(Cass. civ., Sez. Unite., 14.6.07, n. 13886).


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