Data: 18/01/2011 11:00:00 - Autore: L.S.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 685 del 13 gennaio 2011, ha affermato che "le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. mobbing) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente nel caso in cui il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente [�] assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i detti soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto pi� debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia". Il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte pone l'accento sulla mancanza nel nostro codice penale - nonostante una delibera del Consiglio d'Europa del 2000 che vincolava tutti gli Stati membri a dotarsi di una normativa corrispondente - di una specifica figura incriminatrice per contrastare il mobbing. I Giudici di legittimit�, rigettando il ricorso di un'operaia, precisano per� come in caso di mobbing � certamente percorribile la strada del procedimento civile, costituendo il mobbing titolo per il risarcimento del danno eventualmente patito dal lavoratore in conseguenza di condotte e atteggiamenti persecutori del datore di lavoro o del preposto. "Il legittimo esercizio del potere imprenditoriale, infatti, deve trovare un limite invalicabile nell'inviolabilit� di tali diritti e nella imprescindibile esigenza di impedire comunque l'insorgenza o l'aggravamento di situazioni patologiche pregiudizievoli per la salute del lavoratore, assicurando allo stesso serenit� e rispetto nella dinamica del rapporto lavorativo, anche di fronte a situazioni che impongano l'eventuale esercizio nei suoi confronti del potere direttivo o addirittura di quello disciplinare."
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